Translate

sabato 25 dicembre 2010

ERA GIA' TUTTO PREVISTO. Quando la musica racconta la vita



Era già tutto previsto fino a quando tu ballando,

mi hai baciato di nascosto mentre lui che non guardava

agli amici raccontava delle cose che sai dire

delle cose che sai fare

nei momenti dell'amore

Ci sono canzoni che raccontano vite, momenti, sensazioni. Parole dialoganti con le note, distese su un foglio che le sputa fuori, a voce alta, gridate nella speranza di essere colte e non solo fischiettate. Era quello che succedeva un tempo alle poesie, quando nei secoli precedenti venivano accompagnate dalla musica, ed è quello che succede anche oggi, quando alcuni testi sono più poetici di altri. E non si tratta solo di una questione di stilistica o metrica, di metafore o similitudini, ma di ciò che smuove quelle sensazioni che la combinazione di suono e parola può provocare.

A volte queste sensazioni possono liberarsi solo se nell'ascoltatore colpiscono il profondo, svincolano ricordi ed emozioni lasciate congelate, smuovono sentimenti imprigionati nell'inconscio. Altre volte passano indifferenti, e non ce ne accorgiamo.

Era tutto già previsto è una canzone che mi provoca qualcosa che va oltre il piacere generato dalla buona musica. Ho scoperto questa canzone qualche anno fa,grazie ad un'amica, in un viaggio autostradale verso quello che sarebbe stato il primo e unico matrimonio di un amico a cui abbia finora partecipato (il che la dice lunga su come stanno messi i trentenni odierni. Non si sposano più). L’abbiamo ascoltata infinite volte, e cantata, e ricantata e ancora ascoltata. Il testo è crudo, disarmante, un testo vero, che racconta dell’amore sofferto, del suo inizio, della fine, di quanto possa far soffrire. Riccardo Cocciante ha questo potere, coniugare parole che da sole avrebbero detto poco dal punto di vista poetico e musica carina ma non da oscar in un’associazione perfetta, semplice da ascoltare, immediato da comprendere, possibile da sentire. Dal risultato che non è la somma di testo e musica, ma molto di più.

Ascoltare, perché si tratta di un suono percepito, di voce o strumento musicale, di un qualcosa di immediato da amare o odiare, di eufonico o cacofonico. Di ripetibile, orecchiabile, fischiettabile.

Comprendere, perché bisogna saper collegare le parole alle esperienze, individuare una pista per interpretarle, andare oltre il primo e più immediato significato, non fermandosi davanti a facili soluzioni.

Sentire, perché non c’è una spiegazione pura ma quando si sente, si sente. Si prova una sensazione ( anche qui notare l’etimo di sensazione, senso, sentire) che prende il corpo, il fisico, il cuore, la testa, la pancia……..perchè la poesia non serve solo comprenderla, bisogna sentirla, collegarla al proprio vissuto, farsi travolgere da essa.

Non c’è un verso di questo testo che non mi porti a situazioni realmente vissute, del passato o del presente, che se stimolate riaffiorano, fino al punto di sentirmi molto vicino al cantautore, che in questa canzone come in molte altre si mette a nudo dimostrandoci di come per l’amore si soffra in modo disperato, folle, maledetto.

Era tutto già previsto. Anche questa volta.

Simone Ariot

giovedì 16 dicembre 2010

Malpensanti che benpensano




Sono intorno a me, ma non parlano con me, sono come me, ma si sentono meglio……

Era il 1997 quando Frankie Hi –NRG, maestro dell’ Hip hop italiano, usciva con “La Morte dei miracoli”, album duro e puro come sempre, se a spremersi le meningi era questo concentrato umano dal carma indiano e dalla carta newyorkese. Un pezzo, questo pezzo, che colpisce subito e viene fischiettato e canticchiato dai liceali sulle versioni di latino e dagli attempati manager stravolti dai successi della new economy. Una canzone bipartisan nella musica ma non nel testo, vero e proprio atto d’accusa verso una categoria umana dalla puzza sotto il naso, dalla smorfia facile e il giudizio sterile. La cantano tutti, pure quelli che senza accorgersene ne sono i principali oggetti d’accusa, mummie acefale senz’arte ne parte, solidi e stabili nella pedana della superiorità (autopercepita), ricercatori dell’accusa senza contraddittorio, dall’aggressione a mano armata, dall’arroganza giustificata. Ce n'è, ce n’è molta, di quelli che considerano automatico non (s)mollare il colpo al primo ostacolo, ma loro niente, loro, quelli che benpensano, vanno avanti a tutta birra, oggi come ieri, un tempo come domani. Qualunquismo da post tardoincazzoso? No, se lo dice anche uno come Catullo, quando condanna quei vecchi benpensanti e bigotti scandalizzati dall’amore di due giovani che si amano e nulla di più ( “rumoresque senum severiorum omnes unius aestimemus assis”).

continua il testo di Frankie.......

…..mani che si stringono tra i banchi delle chiese alla domenica, mani ipocrite, mani che fan cose che non si raccontano altrimenti le altre mani chissà cosa pensano, si scandalizzano. Mani che poi firman petizioni per lo sgombero, mani lisce come olio di ricino, mani che brandiscon manganell…..

Leggete il testo e soprattutto ascoltate il pezzo immaginandovi anche voi in auto, un po’ distrattamente imbranati nell’aspetto e selvaggiamente menefreghisti nel rispetto del codice della strada. Immaginatevi lì, con questa gente dietro che rimbalza proteste e lamentele, insulti e sbruffonate.

Ma poi chiediamoci: Non abbiamo mai benpensato?

Simone Ariot

mercoledì 8 dicembre 2010

We want sex!



Non preoccupatevi, perché non si tratta di una richiesta sconsiderata e inopportuna di un insegnante dagli ormoni agitati, ma solo il titolo di un film distribuito in questi giorni nelle sale cinematografiche italiane. We want sex è una di quellle interessanti scoperte che difficilmente passeranno per la grande distribuzione cinematografica, film in cui si racconta la vera storia di 187 operaie della Ford U.K che nel 1968 hanno dato ascolto alla passione che cresceva in loro, scioperando come fino a quel momento nessuna donna aveva mai fatto. Il motivo? Un motivo GIUSTO, come si dice nel film, la necessità di equiparare il salario femminile a quello maschile e veder riconosciuto il proprio status di lavoro qualificato. Quella che inizialmente sembrava una sorta di bravata isolata e senza conseguenze riesce in pochi giorni ad espandersi andando a coinvolgere molte lavoratrici inglesi. Impresa non semplice, impossibile senza il sostegno del ministro (donna) Barbara Castle che non si lascia intimorire dalle pressioni psicologiche dei grandi dirigenti Ford e scende in campo fino a dar vita alla Equal Pay Act, una vera e propria legge che equipara il salario femminile a quello maschile. Un film emozionante e divertente che aiuta ad avvicinarsi ad alcune oscure pagine di storia erroneamente ritenute minori. Era il 1968, sono passati 42 anni e in Italia la parità economica salariale non è ancora stata del tutto riconosciuta, manca ancora quel 2% simbolico che aggiusterebbe le cose.
Ma voi, donne italiane, "do you want sex?"
Simone Ariot

martedì 30 novembre 2010

Un Maestro in meno, Mario Monicelli

Il maestro se n'è andato.

Forse era rimasto solo. Unico e raro cantore delle storie semplici e difficili da raccontare.

O forse non accettava la perdita dell'autonomia che da vecchi lascia gli uomini mezzi padroni di sè stessi.

Mario Monicelli, regista 95enne morto suicida in un ospedale romano, gettandosi dalla finestra del reparto di urologia dov'era ricoverato, era uno dei grandi che hanno fatto grande Roma e L'Italia. Roma perchè l'amava, lui che visse per tutta una vita a Monti, quartiere dallo spirito popolare ed elegante al tempo stesso, l'Italia perchè contenitore delle storie che ha raccontato. Storie burlesche come quelle dell'Armata Brancaleone, storie di vita di donne come in "Speriamo che sia femmina", dove dirige un cast eccezionale in una commedia corale condita in salsa rosa ( di donna s'intende).

Mario Monicelli incazzato e incazzoso che da Santoro auspica alla rivoluzione ( "ce l'hanno avuta tutti, anche in Russia, in Francia, noi ancora no"), Mario Monicelli caciarone e adolescente che dirige "Amici miei". Ma che dire ancora. Nulla, perchè ha già detto tutto lui, dall'alto dei suoi splendidi 95 anni portati con dignità e lucidità senza cercare la pensione o la tranquillità interiore. "Ha scelto di morire come sapeva fare, con curiosità" dice la matrona delle commedie italiane, Stefania Sandrelli, triste per dramma di una morte che se si capisce si fatica ad accettare.

Io lo capisco.

Perdere l'autonomia quando l'autonomia ci ha dato tutto, quando vivi per e grazie all'autonomia, non dev'essere semplice. E allora le scelte estreme. La consapevolezza di avere un corpo che si avvicina alla bara e l'impossibilità di fermarne la corsa, e si accelera il tutto, e si va a volare.

Sembra un po' un suo film, forse stava semplicemente cercando un passaggio nascosto, o forse Ugo ( Tognazzi) gli aveva dato l'indicazione sbagliata. La supercazzola con scappellamento era destra, non a sinistra. E senza antani per di più.

Mario che ci combini!

Simone Ariot

lunedì 22 novembre 2010

C'era una volta un mito


Gandhi, Martin Luther king, Che Guevara, Madre Teresa, Fabrizio De Andrè, Cary Grant, Gorbaciov, Carl Lewis, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Peppino Impastato e il rivoltoso sconosciuto di piazza Tiananmen. Cosa sono? Icone.
Volti che rappresentano ideali, simboli di una vita spesa per difendere un valore, un sogno, una speranza. "I have a dream" ripeteva il 28 agosto 1963 il pastore protestante, attivista per i diritti umani e politico americano Martin Luther King. Lo ripeteva in modo scandito e ricorsivo, fermo su un tono alto di voce e dopo pochi giorni ( in un mondo senza internet) i giovani di tutto il mondo ripetevano a voce alta “I Have a dream”. Da quel giorno sognare è diventato più civile e più sociale, è diventato un sogno collettivo ( forse Inception ha preso spunto da qui?) e ha colpito dritto dritto al cuore di mezzo mondo. I volti di questi uomini e donne sono associati a battaglie, ad ingiustizie vissute sulla propria pelle e alla tenacia per combattere anche quando i risultati dei propri combattimenti non riguardavano se stessi ma gli altri, i deboli. Questi volti sono comparsi un po’ alla volta nella storia, ma ogni epoca ha avuto il proprio. Ogni camera di ogni studente ha avuto un’icona positiva e sognatrice appesa al muro, a dare il benvenuto.

Oggi, nell’epoca del nichilismo divagante, delle veline e dei calciatori tatuati, delle lauree honoris causa regalate ai motociclisti o dei pareri filosofici richiesti ai tronisti, le icone sono morte. Difficile trovarne, difficile capire chi possa rappresentare un modello positivo vero, che non caschi nel dimenticatoio come i pantaloni a vita bassa o le spalline imbottite.

Oggi, tra viventi e contemporanei, chi sono i miti? Chi rimarrà nel tempo? Chi è un modello per chi vuole ancora avere un sogno, per chi ancora lo cerca, per chi aspetta uno stimolo?

Commentate e rispondete pure, aspetto d'essere illuminato.

Simone Ariot

domenica 14 novembre 2010

L’Italia è una Repubblica gerontocratica*, fondata sulla vecchiaia.


…..La sovranità appartiene ai vecchi, che la esercitano rincoglionendosi un po’ alla volta.
Già, perché nell’epoca dell’assenza di certezze, di ricerca di punti fermi che svaniscono e di riferimenti che si perdono, quella della vecchiaia al potere rimane una delle poche verità e consapevolezze che abbiamo in questo stanco, vecchio e immobile paese.
L’Italia è un paese per vecchi.
Non serve essere ispirati da dati che ci parlano di crescita dimezzata rispetto ai bei tempi degli anni 50’, e non possiamo consolarci nelle spiegazioni demografiche comprensibili semplicemente passeggiando in città, nel tentativo più o meno abile di schivare branchi di anziani soli o male accompagnati. Perché la vecchiaia che fa male all’Italia non sta nel nonno di turno che porta il nipotino al parco giochi, ma nel nonno di turno che presiede i consigli di amministrazione, la presidenza del Consiglio, della Repubblica, del rettorato universitario, delle municipalizzate, del consiglio nazionale della magistratura e di tutti i centri del potere.
Un’Italia in cui il presidente del consiglio ha 74 anni contro i 49 di Obama o i 57 di Tony Blair ( che comunque si è già ritirato), un’Italia in cui l’allora ottantacinquenne Andreotti disse che Napolitano era più adatto di lui a fare il presidente in quanto più giovane ( eh si, aveva ottant’anni!), un’Italia in cui nelle scuole è praticamente impossibile trovare insegnanti con meno di quarant’anni o presidi con meno di sessanta. Un’Italia ferma, con gli indirizzi mail dei vari direttori generali intasati perché tanto loro le mail non le leggono, perché non sanno come funzionano. Un’Italia in cui se hai meno di quarant’anni non sei considerato giovane, sei considerato un ragazzino a cui non affidare nemmeno una minima responsabilità.
Un’Italia in cui i giovani, magari trentenni, si sentono adolescenti for ever perché tanto è la sola cosa che gli si lascia fare, il solo luogo simbolico in cui rifugiarsi.
Lo diceva già Arnold Van Gennep, antropologo francese studioso dei riti di passaggio, quando nel 1909 pubblica a Parigi “Les rites de passage”, illuminante saggio in cui spiega che per passare da uno stadio all’altro ( ex. dalla condizione di celibe a quella di sposato) si deve passare per una fase di margine in cui ci si prepara all’entrata nella fase successiva( ex fidanzamento). Separazione, margine, riaggregazione, ma nella nostra Italia la fase di margine tra la vita infantile e quella adulta diventa infinita, una contemplativa e lunghissima attesa per abituarsi poi a stare dalla parte del potere, nella stanza dei bottoni in cui ci si riscatta per l’attesa durata una vita intera. E tutto si riperpetua.
Si lotta per assumere un senso e quando lo si assume ci si è ormai sporcati le mani dal sistema tanto odiato e ormai entrato nel proprio dna. Ed ecco allora il perpetuarsi del fattaccio, una nuova nomenclatura di vecchi al potere che sostituiscono altri vecchi ormai andati. Già, andati, non ritirati ma andati, perché come dice il già citato Andreotti il potere logora….chi non ce l’ha. Per questo non si ritira.
Facebook, mail, 3g, wi-fi, globalizzazione e internazionalizzazione, inglese fluently e net-working, business plan e workshop, green economy e long life learning…..termini difficili per chi è troppo giovane o troppo vecchio, non per chi sa bene che sono i termini che gestiscono la crescita economica di oggi, il futuro del domani.
Novità, cambi di rotta, di tendenza, intuizioni, ma tutto ciò non conta nelle menti di chi il potere ancora lo vuole tenere ben saldo a se stesso, lasciandosi scappare l’opportunità del cambiamento e perdendo il treno del progresso.
Un’Italia in cui il Bunga Bunga eccita e crea consenso, ma dell’alluvione più devastante degli ultimi 50 anni non se ne accorge nessuno. Tranne quei giovani con badile in una mano per spalare fango e I-Phone sull’altra per testimoniare l’evento, mentre i vecchi e geniali capi dei municipi aspettavano un fax ( strumento arcaico utile ormai solo agli archeologi) per essere avvisati di un disastro evitabile. Un’Italia in cui non si può liberamente navigare in internet senza essere schedati come terroristi, in cui esistono gli ordini professionali dalla forma medioevale e dal prestigio universale. L’Italia che la domenica mattina tira fuori il vestito buono per andare a messa e il pomeriggio grida sugli spalti degli stadi per sentirsi viva. Un’Italia ferma, che più ferma non si può. Ferma a studiarsi e specchiarsi, come una bella donna che a forza di stare davanti allo specchio invecchia mentre i suoi pretendenti si sono già stufati rivolgendosi ad altre bellezze.
Italia svegliati fuori, rottama i tuoi centenari Matusa al potere, tira fuori la voce e fatti ascoltare.
Partendo dai giovani, quindi una bella fetta di popolazione!
Almeno fino a sessant’anni.

Simone Ariot

mercoledì 10 novembre 2010

Il coraggio di ripartire. Da una motocicletta....

E’ una storia come poche, una storia di quelle che leggi scritte sui giornali e poi, quando te le trovi davanti, non ti sembra nemmeno che possa essere vera. Se poi a scriverle sui giornali devi essere tu, allora la faccenda si complica perché entri ancora più dentro la questione. La storia che vi accenno oggi la potrete leggere con più tranquillità sul prossimo numero di Accenni, rivista con cui collaboro che uscirà tra pochi giorni in edicola . Parte tutto da lontano, da una passione per le moto e soprattutto per le moto di una volta, quelle senza troppa plastica e colori sgarcianti, che mi ha concesso di avvicinarmi a questa storia di persone e motociclette, di sentimenti e fantastici mezzi meccanici.

Lui si chiama Umberto Borile, ed è un artigiano con bottega a Vo’ Euganeo, in provincia di Padova, dove assembla una alla volta straordinarie moto scrambler, essenziali, bellissime. Fin qui nulla di strano, anche se vedendo le sue moto di strano ci sarebbe molto, perché sono belle e con l’anima. Un paio d’anni fa la decisione di cedere il marchio ad un’azienda più grande, il cambio d'interesse per un business parallelo, e la decisione di fare delle moto solo un passatempo. Poi il vuoto, provocato da un fattaccio. A soli 20 anni Riccardo, figlio di Umberto, muore tragicamente in una calda giornata estiva. Un ragazzo che anche lui amava le moto, un ragazzo come tanti altri ventenni che sogna di emulare il Valentino nazionale ma che se ne sta bene con i piedi per terra, un ragazzo che aveva il sogno di portare la gente a scoprire i colli euganei, a bordo dei Quad, un ragazzo che non c’è più. Disperazione, rabbia, difficoltà nell’accettare portano Umberto a chiudersi in se stesso, a lasciare tutto, a non volerne sapere più nulla di nulla.

Poi, senza preavviso, suona il campanello una coppia genitore-figlio che gli propone di rimettersi in campo nel mondo della progettazione motociclistica. Lo corteggiano, lo spronano a ritirar fuori quelle doti e quella passione che l’avevano reso uno dei progettisti più stimati al mondo. Così, quasi per caso, e grazie all’insistenza dei due angeli della provvidenza, Umberto si rimette in carreggiata e disegna la Ricki 500, una moto che vedrà luce in soli 20 esemplari, a 20.000 euro l’una, quasi tutte già prenotate. Una moto con un nome che ricorderà il figlio scomparso, una moto che Umberto vuole fare da solo, con il suo sudore e le sue mani, per dimostrare a se stesso e al mondo, ma soprattutto a chi da lassù lo guarda, che la vita deve andare avanti, anche dopo un tragico avvenimento. Ieri, nella sua piccola bottega di Vo’ Euganeo, tra lo scodinzolare del cane Silvestro e i telai di vecchi monocilindrici giapponesi pronti ad essere sezionati e trasformati, ho rivisto l’amore per la vita, la passione, la non rassegnazione di un uomo, ex artista corniciaio che decide di costruire moto, ex padre che non dimentica il passato, ora costruttore e fabbricatore di sogni, per chi ha sofferto e per chi gioirà. Grazie Umberto.

Simone Ariot

martedì 2 novembre 2010

H20, acqua, liquida, trasparente, leggera,importante. Pericolosa


Occupa il 70% del nostro organismo, la troviamo dappertutto, come uno spirito che secondo le leggende più remote ci segue dalla nascita alla morte, rendendosi indispensabile e allo stesso tempo trasparente. Non solo nel colore o nella forma, è trasparente nell’importanza diretta e immediata che le attribuiamo. Di acqua nella nostra vita ce n’è talmente tanta che non ci pensiamo nemmeno, in qualsiasi ora del giorno la tocchiamo, l’assumiamo, l’espelliamo, senza nemmeno rendercene conto, senza fermarci un momento e dire: “Questa è acqua”. Nuotiamo nell’acqua prima ancora di nascere, ci abbandoniamo in lei nella calde giornate estive, quando “mare” risulta essere una delle parole più pronunciate, la surfiamo quando è fredda e solida sotto forma di neve o la sprechiamo in continuazione anche quando pensiamo di farne un uso maturo e responsabile. Fredda o calda, liscia o gassata, l’acqua è sulla bocca, sulla pelle, dentro la pelle e sotto le scarpe di tutti. Già, sotto le scarpe, o gli stivali di gomma piuttosto, che in questi giorni di novembre difficilmente abbandoneremo. Metri cubi, rigagnoli, fiumi o fiumiciattoli, laghi e oceani di proporzione urbana, lente e costanti masse d’acqua che scivolano incessanti, come un treno o un continente alla deriva che non riesce a star dentro ai propri confini, i propri argini. Acqua sporca, marrone, puzzolente, acqua che sale e non scende, che sporca e non pulisce, acqua che distrugge e che rovina, che uccide e non fa bene. L’acqua è la stessa eppure cambia, oggi non ci serve, oggi ci fa male. L’acqua s’incazza forse, ci dice che c’è , che è importante, che non possiamo far finta di nulla e dimenticarci di lei. Ma non basta e ci sfida, sfida la nostra impotenza, quel nostro starcene a guardare fermi e rintrucilliti, senza saper bene cosa fare. Si muove la macchina dei soccorsi, si distribuiscono sacchi, si arginano fiumi e si salvano persone. Ma lei è lì, sta lì, fino a quando non è stanca. Poi, ad un certo punto, si ritrae, sembra fatta, “ora è tutto passato” pensiamo, invece no, falso allarme, ci voleva solo fare uno scherzo. L’acqua è la natura, è tutto ciò, un contenuto nel contenitore che non s’è sempre scelta, un ospite inquietante ed inatteso, conosciuto ed abusato. Sarà per questo che a volte s’incazza? Forse si.

Simone Ariot

venerdì 22 ottobre 2010

Questione di Facebook



500 milioni di utenti in meno di 5 anni effettivi. 100 milioni in 9 mesi. Questi sono i numeri di Facebook, re incontrastato dei social network che hanno trasformato il modo di comunicare fra le persone in questi ultimi anni. In principio erano lettere, o come anticamente le si chiamavano missive, pezzi di carta che arrivavano dopo giorni, settimane o addirittura mesi. Poi fu la volta del telefono che come si diceva in una nota e geniale pubblicità “ti allunga la vita”, alla faccia della bolletta e degli squilli che svegliavano tutta la famiglia, della variante “messaggino”, un semplice sistema per spendere molti soldi imparando a riassumere bene un concetto, o della mail,incontrastati sistemi nella comunicazione lavorativa, ma queste comunicazione erano riservate a chi si conosceva. Non si può certo scrivere una mail senza avere un indirizzo, invece Facebook supera questo limite, ed è possibile comunicare (o cercare di comunicare) con persone che non si conoscono nemmeno, o che si conoscono solo di vista. Ecco allora che “cercando” un nome, troviamo una persona con foto ed informazioni personali, uno “status” aggiornato, la lista delle pagine che considera ok e gli amici che si porta dietro, in una lista spesso numericamente inversamente proporzionale all’età del soggetto. Amicizia prima richiesta, poi concessa ed infine esibita, amicizia tra persone che a volte non si sono nemmeno mai parlate o sfiorate, ma che per qualche strano motivo si definiscono amiche. C’è il timidone che si avvicina ad una ragazza alla quale non ha mai avuto il coraggio di dire nemmeno un tenero “ciao”, c’è l’ex fidanzato che cerca un modo meno invasivo per controllare spostamenti ed abitudini della tanto amata ex ragazza, c’è il genitore che con tono finto giovanile si fa per amici i figli e i compagni di scuola di questi, cercando alleati inconsapevoli per restare sempre informato. Fotografie taggate, elementi di riconoscimento di un’identità spesso esibita e quasi mai protetta, aggiornamenti quotidiani e in tempo reale sul proprio status per informare il mondo che in quel momento Marco “è stanco di studiare,si prenderà una pausa” o Giulia “preferisce non illudersi troppo, chi ha capito ha capito”. Una sorta di finestra sulla nostra vita, opaca talvolta e trasparente quasi mai, in cui si accetta di mettersi a nudo ( o meglio semivestiti) ed aprirsi al mondo, o almeno al mondo degli amici. Guardo il profilo di Alessandro, 17 anni, e vedo che ha 2342 amici. Con quanti di questi avrà mai parlato, discusso, riso,scherzato,litigato? Con quanti di questi avrà mai dormito su un marciapiede aspettando il treno per tornare a casa dopo un lungo interrail, con quanti avrà condiviso gioie e dolori di un’estate che sta finendo o di un week end che ha visto morire un amico o un parente? Di quante di queste 2342 persone conosce la vita, la famiglia, le abitudini, i gusti? L’amicizia è un’altra cosa. Facebook è una vetrina, spesso utile e molte volte dannosa, o meglio illusiva.

Detto ciò, confesso che anch'io, come tutti, ho un profilo Facebook.

Simone Ariot

venerdì 15 ottobre 2010

Elogio della pizza.


Disco volante, astronave, quadro o tavolozza di colori. L’ho sentita chiamare in tutti modi possibili immaginabili, vedendo la fantasia delle parole e sentendone il profumino giungere fin davanti al mio naso. Chi non la conosce? Chi non l’ha desiderata nei momenti meno opportuni, quando un crampo allo stomaco ti prende e ti conduce a lei?! Bianca, rossa e verde come il tricolore ( la fogliolina di basilico non deve mancare), questo simbolo d’identità italiana diventa una sorta di ricetta d’esportazione nazionale. Economica, veloce, completa, la pizza rappresenta una soluzione al pasto veloce o alla più tranquilla cena tra amici, quando le finanze scarseggiano o la fame è tanta. Una delle parole italiane più conosciute e pronunciate nel mondo e termine di paragone nel giudicare il cibo estero, la pizza è stata oggetto di rappresentazioni artistiche, cinematografiche, musicali……. Il celebre Totò la citava spesso nei suoi film ( “posso offrirti una pizza…ce li hai i soldi?”), Pino Daniele ne ha scritto una canzone per celebrarla ( “Fatte na pizza”), e ancora oggi la pizza rimane una straordinaria occasione di socialità. Dalle serate di “pizza e birretta” nella pizzeria all'angolo alle pizze d’asporto che arrivano comodamente fin sotto casa, anche se un po’ lessate. Un rito senza esserne consapevoli, una tradizione nazionalpopolare, un desiderio democratico e trasversale e ancor più un segno dell’identità italiana che nel tempo diventa sempre più globale. Se fino a pochi decenni fa la pizza doveva avere un concentrato di napoletanità visibile e ridondante, oggi non è raro trovare pizzerie con pizzaioli milanesi, padovani, egiziani o finlandesi. La pizza vola, oltre i confini della storia e della politica che vorrebbe regolamentarla, diventa PizzaHut, Mexipizza, pizza con patatine o crema tartufata, pizza al trancio o speedypizza. La fantasia di pizzaioli ed imprenditori non ha limite e giorno dopo giorno un'intera economia si muove in direzione della pizza, ritenuta talvolta come una sorta di lasciapassare alla ristorazione facile. Per tradizione un napoletano o più in generale un italiano che emigrava all'estero sapeva bene che, alla fine, poteva sempre mettersi a fare le pizze e in quanto italiano i clienti non gli sarebbero mancati. Ma diventare pizzaioli nasconde allo stesso tempo insidie e difficoltà, ed ecco che anche il giornalismo ce ne vuole parlare, attraverso un libro inchiesta che fa passare la voglia di pizza. Della pizza originale poi, quella napoletana, rimane ben poco, forse solo il nome, e lo spirito d’intenti, che vuole questo cibo semplice e ridente, spigliato e nutriente. Forse pochi lo sanno ma a Napoli la vera pizza è solo Margherita o Marinara, senza possibilità di mille ingredienti esotici abbinati a chissà quale birra, perchè per tradizione con la pizza si beve solo acqua, possibilmente del sindaco. Chissà cosa ne pensano quelle pizzerie oggi diventate templi del gusto, dove una pizza costa 25 euro,(ma è sublime, provare per credere) e si deve prenotare con un mese d'anticipo! Voglio lasciarvi ai dubbi e alle considerazioni personali, perchè la pizza oltre che la fame suscita anche la riflessione. E intanto che rifletto, quasi quasi mi faccio na' pizza. Napoletana (piccola soffice e “alta”), o romana (bassa, croccante e larga)? Non ci sono dubbi, per me una napoletana, Margherita naturalmente.
Simone Ariot

venerdì 8 ottobre 2010

Chi c'è dietro la tua ombra?



Siamo gelosi della nostre cose, delle nostre parole, dei nostri affetti e delle nostre creazioni? Siamo gelosi e fortemente attaccati a quanto esce o entra in noi, a quanto viene identificato con il nostro lavoro e con la dedizione che mettiamo in qualcosa? Giorno dopo giorno, senza forse nemmeno accorgercene, arriviamo a produrre, fare, parlare. Tutte attività in cui mettiamo qualcosa di nostro. Perchè con le nostre parole, azioni, gesti e movimenti, diamo un valore e soprattutto un'identità a ciò che ci appartiene. E' come se, silenziosamente, dicessimo "in questa cosa ci sono io". Il discorso di un avvocato in tribunale per scagionare l'assistito da un'ingiusta accusa, le parole del poeta che scrive una lettera d'amore all'amata, lo slogan di un copywriter per pubblicizzare un prodotto. Possono essere solo parole, ma parole con una storia e un'identità, in alcuni casi con una proprietà. Come accade alle parole dei testi letterari, coperti dal diritto d'autore e dall'impossibilità di essere riprodotti per un determinato arco di tempo, o come avviene più semplicemente per i nomi dei prodotti e per i marchi, che non possono conoscere doppioni. Perchè in tutto, anche nelle cose inanimate e nelle parole, c'è un po' d'identità. Anche in ciò che apparentemente deve esprimere solo un concetto c'è dietro il mondo di colui il quale l'ha per la prima volta identificato, ideato o espresso. Già tempo fa ne avevo parlato, in un post di qualche mese addietro in cui cercavo di trasmettere il valore dell'autonomia mentre si scrive, della creatività e della personalità.
Certo, perchè scrivere quanto hanno già detto altri, ripetendolo magari all'unisono, è un esercizio troppo semplice, una prassi fin troppo inutile per lo sviluppo di alcune abilità, come quelle della comunicazione. Noi comunichiamo perchè siamo, ovvero perchè esistiamo, perchè siamo vivi. Se ci rifiutiamo di comunicare ciò che ci rappresenta, se ci rifiutiamo eventualmente di comunicare il vuoto che in quel momento ci attanaglia, per lanciarci nella facile avventura di prendere in prestito qualcosa che non è farina del nostro sacco, commettiamo un furto di qualcosa di più delle semplici parole. Commettiamo un furto d'identità. Teniamoci la nostra che è meglio, perchè qualsiasi originale ( anche se non perfetto o magari poco interessante) è sempre più straordinariamente vivo e vero della migliore tra le imitazioni.
Ho voluto ritirar fuori questo argomento perchè, sapete, prevenire è meglio che curare, soprattutto se a curare devono essere provvedimenti indelebili.
Siamo intesi?

Simone Ariot

domenica 3 ottobre 2010

Sull'ispirazione, ovvero, i blocchi creativi


Prima o poi un post del genere doveva proprio venir fuori. Perché dopo un anno di settimanali creazioni dettate da improvvise o studiate idee che macinando nel cervello si traducono in piccoli articoli, talvolta interessanti e talvolta autoreferenziali, doveva arrivare un momento di crisi creativa. Blocco creativo, stallo, iniezione di vuoto o come vogliamo chiamarlo, chi scrive o comunque crea deve almeno una volta nella vita ( ma più solitamente molte di più), confrontarsi con questo stato. A volte il blocco creativo, questo mostro temuto, arriva e non se ne va via, diventando compagno ufficiale delle nostre giornate, altre volte è veste i panni del visitatore passeggero, che in punta di piedi, senza badare al disturbo, passa a farci un salutino, chiedendo un’ospitalità che gli viene tendenzialmente negata. Bene, consultando internet si trovano consigli di chi spende parole e paroloni per offrire soluzioni ad un problema che affligge artisti, letterati, pubblicitari e imprenditori da quando il mondo ( o meglio l’arte), esiste. Noi invece vogliamo affrontarlo così, semplicemente annunciandolo, e riconoscendolo.
Perché è arrivato un po’ all'improvviso, senza far troppo rumore, forse in punta dei piedi, in una domenica mattina dai comuni tratti deprimenti. Ma, se ci si sofferma un po’, almeno per la prima volta il blocco creativo può dare un’iniezione di idee e creatività, tant’è che sono qui a scriverne. Secondo voi, come si affronta un blocco creativo? Quali consigli o tecniche vale la pena di ascoltare? Io, per me, lo guardo e l’ascolto un po’, perché nella maggior parte dei casi, come oggi, è il blocco stesso ad offrirmi la soluzione.
Ci siamo capiti? La parola a voi!
Simone Ariot

giovedì 23 settembre 2010

Nous, voulevons savoir....ovvero, parla come mangi




Lo sentivo dire da un bidello quando andavo alle medie: "Parla come te magni", seguito da una serie di sproloqui e imprecazioni che rendevano la frase molto più lunga, come da tradizione veneta. Ma il concetto era comprensibile, al contrario dei discorsi densi di francesismi di tanti e sedicenti colti professori che si rivolgevano a Dino guardandolo dall'alto in basso. Perchè in effetti è così, da che mondo e mondo la lingua e la comunicazione possono essere un valido sistema per trasferire informazioni ma anche un'ottima strategia per sottolineare differenze di ceto e d'istruzione. Ce lo ricorda bene il Renzo manzoniano,quando dall'avvocato Azzecca Garbugli si faceva ripetutamente fregare da quel latinorum che proprio non capiva. Una consuetudine insomma, una strategia che non si confina nelle pagine più o meno impolverate della letteratura ma che esce dai libri per entrare prepotentemente nella realtà. Proprio come accade oggi, nel decennio della comunicazione facilitata e del trionfo dei pid-gin ( incroci di lingue per semplificare la comunicazione), quando ad Ariano Irpino il segretario comunale ha stupito tutti i dipendenti con una lettera incomprensibile, dai toni pesantemente artificiosi scegliendo termini desueti o addirittura irreperibili nel dizionario.
Qui di seguito parte del testo, ditemi voi se ci capite qualcosa:

«Ho letto lo scritto emarginato in epigrafe con tutta l’attenzione che ha meritato. Nulla più. Vediamo elenticamente perché. Da essa viene in emersione una apodittica concezione del diritto immaginato come un’astrazione da investire acriticamente. Infatti è meridianamente epifanica l’indifferenza contenutistica che implica meccanicisticamente un calco a rime obbligato: la devozione al culto del formalismo idealizzato come un rifugio onirico».
«Tale rifugio svolge “una funzione redentrice”. Ma tutto ciò, come ammonisce un maestro dei nostri tempi, Natalino Irti, produce un meccanismo giuridico “che sospinge verso la nientità del diritto”


Comprensibile? Beh, io direi di no, e credo che inconsciamente vi fosse un desiderio di finire sui giornale, come è successo!

Simone Ariot

giovedì 2 settembre 2010

Un addio non è mai per sempre


Alle classi 3ast e 5cst del liceo Quadri
Temevo molto questo momento, ma sapevo che sarebbe potuto arrivare. Purtroppo, nonostante infiniti tentativi per far andare le cose diversamente, per questo nuovo anno scolastico non sarò con voi. Mi dispiace molto, perchè il viaggio che stavamo facendo insieme non lo consideravo concluso, sentivo che c'erano ancora molte cose da fare, molti argomenti di cui parlare, molta letteratura di cui occuparsi, ma soprattutto sapevo di aver ancora bisogno di voi, due classi che si sono rese disponibili a fare le cose in modo talvolta nuovo e diverso. Purtroppo non ha dipeso da me e nemmeno dal preside, che di fatto si è adoperato in tutti i modi possibili per tenermi al Quadri, ma da una assurda logica burocratica che non considera in alcun modo il bene degli insegnanti e ancor meno quello degli studenti. Pensate che le ore per me ci sarebbero state, ora affidate ad una supplente, ma per questioni illogiche ed incomprensibili (diciamo pure per questioni stupide), sono andate ad altri. Per farvi capire cosa sia successo avrei bisogno di ore, e la questione è piuttosto noiosa, ma posso assicurarvi che si tratta di una decisione casuale, totalmente svincolata da quelli che dovrebbero essere i soli criteri sani.
Ma non voglio soffermarmi su questo, perchè vorrei guardare avanti e vorrei che anche tutti voi possiate guardare avanti. Agli studenti di V°CST, ora prossimi maturandi, auguro un buon anno all'insegna della serenità, del divertimento e ....dell'impegno. Ricordatevi che in italiano la letteratura che si studia in quinta è la letteratura regina, la più bella e appassionante, quella che vi farà sentire gli autori molto più vicini di quanto non vi sia mai capitato. Più avanti andrete con l'anno più vi renderete conto che i poeti ci parlano di cose che riguardano anche noi, giorno dopo giorno e problema dopo problema. Mai più, probabilmente, vi capiterà di occuparvi di certe questioni da un punto di vista così serio, perchè lo sappiamo benissimo che sarete destinati soprattutto a facoltà scientifiche. A maggior ragione sfruttate quest'ultima possibilità, buttatevi a capofitto in letture appassionanti e in storie di vita che fanno venire i brividi. Mi dispiace molto non affrontare con voi quest'anno, non ho mai nascosto che il programma di quinta è il mio preferito e quello su cui mi sento più preparato. Non importa, troverete un/a valido/a docente e sappiate che la mia posta elettronica è sempre aperta per voi. Dubbi o problemi, io ci sono. E anche se l'anno scorso questo percorso on line di "Parolefantasiose" non vi ha riguardato, sappiate che è aperto a tutti, che andrà sempre avanti, e che è rivolto anche a voi, quindi preparatevi perchè i commenti nei vari post sono ben accetti anche da voi.
A voi più piccoli, voi della 2°ast che solo un paio di anni fa arrivavate a scuola intimoriti e ancora bambini, a voi va un grande grazie per avermi consentito di sperimentare quanto nella scuola italiana non si era ancora mai fatto. Al Venezia Camp di luglio, una fiera sull'innovazione digitale, ho parlato del nostro progetto davanti ad una platea di esperti di vari settori che sono rimasti allibiti quando hanno visto cosa abbiamo fatto l'anno scorso. Chi potrà mai dimenticare il clima delle lezioni in laboratorio, le notti passate a collezionare commenti, la straordinaria esperienza di Mediaset che è venuta a raccontare il nostro percorso o l'interessamento di giornalisti di radio e carta stampata che hanno passato tempo a documentarsi e a raccontare la nostra avventura per una trasmissione televisiva. Ma non solo, pensate a tutte le centinaia di pagine che avete scritto fra temi e racconti, con le scadenze che si facevano sentire e l'ansia ( positiva)per la valutazione; e vogliamo parlare delle ore settimanali passate a leggere insieme tre romanzi che hanno fatto la storia con i relativi blog da voi prodotti che ancora oggi vengono letti in Italia e nel mondo? Ricordo ancora oggi la vostra titubanza di fronte alla mia idea all'inizio dell'anno, ma tempo pochi giorni e abbiamo visto che si trattava di una buona idea! Quest'anno avevo in mente un bel percorso su Dante e la Divina Commedia, ancora aggiornato e rivisto rispetto quanto ero solito fare in passato, un percorso che sono sicuro sarebbe stato molto attraente e che di fatto non potrò più sperimentare. Pazienza, mi inventerò qualcos'altro e cercherò di trarre vantaggio dalla nuova esperienza che inizierò tra pochi giorni. Chiaramente ( e ve lo avevo già anticipato), il mio addio è un arrivederci, e soprattutto un a risentirci. Parolefantasiose sarà sempre vostro e mi piacerebbe vedere i vostri commenti ai nuovi post che si mescolano con quelli dei nuovi studenti a cui proporrò questo percorso. Mi raccomando, cercate di mettere a frutto l'esperienza fatta, ma sforzatevi ad adattarvi alla nuova insegnante senza farla diventare matta!

Carissimi ragazzi e ragazze, buon anno scolastico, e soprattutto, buona fortuna nella vita, perchè ne abbiamo tutti bisogno e perchè non c'è solo la scuola, come ben sappiamo tutti.
Ciao a tutti!
Simone Ariot

lunedì 9 agosto 2010

Arrivederci a settembre !



Parolefantasiose è in vacanza. Da un bel po' ormai, diciamo da almeno un mese e mezzo, e ci rimarrà fino a settembre, quando riapriranno le scuole.
Per il momento parolefantasiose si sta rilassando dopo un viaggio in Sardegna, uno in Grecia, e uno che sta per intraprendere in Sicilia. Dopo un anno di duro lavoro arrivano viaggi, cibo, rilassatezza, esplorazioni, buone letture, amici, amori, mare, montagne, colline, pesci, carne, eccessi e tanto altro.

CI VEDIAMO A SETTEMBRE, QUANDO RIAPRE LA SCUOLA

Simone Ariot

sabato 5 giugno 2010

Le dieci cose migliori da fare quando la scuola è finita


C'è poco da fare. E' e sempre sarà un momento topico, una realtà che per secchioni o schiappe è attesa da settembre e che si intensifica negli ultimi giorni di scuola, quando ormai solo a sentir pronunciare questo termine vengono i conati di vomito. Tutto l'anno si attende questo momento, lo si sogna, lo si aspetta in modalità mistica o passiva, organizzando riti scaramantici o più semplicemente segnando sul calendario i giorni passati e godendo nel vedere che ve ne sono sempre meno tra gli immacolati. Tutto l'anno ci si concentra per immaginare ed organizzare il giorno della liberazione, che quest' anno non sarà il 25 aprile ma il 9 giugno e quando meno ce se lo aspetta, eccolo arrivato. Professori e studenti gioiscono per la fine delle torture, anche se per i professori e i maturandi non è ancora finita. Ma quali sono quelle realtà che rendono molto diverse le giornate di vacanza da quelle passate a scuola? Cosa si può fare in questi benedetti giorni di vacanza rispetto a quello che si fa solitamente durante l'anno? Certo, andare in vacanza, ma questa è una risposta scontata e banale. Io intendo sondare il terreno e capire quali sono le 10 cose che tutti , professori e studenti, desiderano fare una volta terminato l'anno scolastico. Inizio io, come rappresentante della categoria degli insegnanti, ed escludendo come dicevo prima la più semplice motivazione del "vado in vacanza" posso dire ( ordine casuale e non d'importanza)...

1- evitare di mettere la sveglia tutte le mattine, dal lunedì al sabato, alle 6.45 del mattino
2- sentirmi finalmente libero da quell'etichetta d'educatore che bene o male mi s'appiccica addosso per 10 mesi l'anno
3- non dover sorridere a qualche collega facendo finta che mi stia simpatico
4- non dover leggere centinaia di temi al mese scritti da studenti che spesso lo fanno male e controvoglia
5- non dover partecipare alla noiosissime riunioni scolastiche in cui si parla di tutto tranne che dell'importante
6- non dover continuamente chiedere educazione e stile a persone che non potranno mai possedere tali qualità
7- poter passeggiare al mattino, con pausa tartina da Renzo o pastina da Sorarù, senza l'angoscia che l'ora buca stia per finire
8- decidere, alle undici del mattino, di farsi una doccia fredda contro il caldo
9- farsi una passeggiata al mare, sapendo che il giorno dopo posso farla in montagna o in campagna
10- prendere un aereo low cost per andare a Napoli in giornata, mangiarsi una pizza, e tornare a casa.

E voi? sbizzarritevi

Simone Ariot

martedì 25 maggio 2010

I promessi sposi in 10 minuti? Con gli Oblivion successo assicurato



Si tratterebbe della storia di due che si devono sposare, poi posticipano, poi lei abbandona l'idea, ma poi alla fine, dopo un casino infinito, si sposano.

Questo è come qualche studente poco studioso e molto fantasioso potrebbe riassumere "I promessi sposi", uno dei più letti, e forse odiati, romanzi italiani. Che siano straletti lo sanno tutti, d'altra parte è inserito nei programmi ministeriali, e che fossero odiati forse lo si sa ancor più consapevolmente.
Ma talvolta, sforzandosi un po', se ne può immaginare una lettura diversa, molto più coinvolgente e divertente, una lettura che avvicina all'opera che forse nell'opera non ci sbatterebbe mai il naso. Si, perchè anche nei confronti della più classica ed istituzionale lettura scolastica, se ne può fare una versione nemmeno troppo riveduta e corretta ma sicuramente attraente e simpatica. Non servono troppe parole per descrivervi l'impresa, ma solo 10 minuti,ed essere pronti a gustarsi in video quello che fanno! Ricordateveli bene, loro sono gli Oblivion, e sono sicuro si sentiràparlare sempre più di loro. Guaradate come ci trasformano Renzo e Lucia, e preparatevi a ridere!

Simone Ariot

venerdì 14 maggio 2010

A Livella: e alla fine siamo tutti uguali!


Lo diceva Parini nel "Dialogo sopra la nobiltà" e il buon principe De curtis, in arte Totò, nella celeberrima "Livella". Possiamo pure pensare a tutte le possibili differenze tra ceto, classe sociale, livello d'istruzione e valore della dichirazione dei redditi, ma alla fine, dopo una vita più o meno vissuta e più o meno soddisfacente,quando siamo morti voglio dire, siamo sempre tutti uguali!
E' un concetto tanto semplice quanto scontato ci verrebbe da dire, ma se pensiamo alle trovate che nei millenni hanno voluto trasformare tombe e sarcofaghi dei potenti per distinguerli dalla massa ci verrebbe da pensare che evidentemente il concetto tanto scontato non è. Le persone inseguono per tutta la vita la ricerca di uno status e di un'identità, e non si accontentano di farlo in vita, la inseguono pure da morti. E se non ci pensano loro lo fanno i parenti, impiegando in molti casi l'intera scarsa eredità per aggiudicarsi la tomba più in del cimitero.
Ma quando si appartiene ai morti che succede?
Siamo sicuri si sviluppino ancora logiche di appartenenza di classe?
Il buon Parini, nella seconda metà del 700', immagina un dialogo tra un nobile e un poeta. Il nobile ritiene assurdo starsene vicino ad un poeta squattrinato, senza conto e senza blasone. Ma il poeta argomenta molto bene nella discussione, ha sempre la battuta pronta e mentre al nobile si marcisce la lingua perchè va in decomposizione, a lui non resta che guardarlo sentenziando che "la lingua dei poeti è sempre l'ultima a guastarsi"!stesso discorso, ma con diversi protagonisti, nella strepitosa poesia di Totò, un concentrato di napoletanità, saggezza popolare ed estro creativo che seppur nella variante regionale si fa capire molto bene. Guardatevelo a seguito!qui!
A voi i commenti.
Simone Ariot

mercoledì 5 maggio 2010

Ti presento un libro !

Eccoci, siamo arrivati.
Vi avevo promesso nell'ultimo post che nel giro di pochi giorni sarebbe stato disponibile il video con la nostra puntata.
Facciamo un po' il punto sulla situazione, tornando ai primi di gennaio, quando stavo parlando con la direttrice della rete Iris Mediaset per la realizzazione di una trasmissione che riguardava l'altra mia vita (non quella dell'insegnante), quando tutto ad un tratto penso che forse, una volta tanto, la televisione potrebbe essere stata interessata a parlare della scuola in modo diverso da come fa solitamente. Non avevo intenzione di proporre uno scoop su un insegnante pazzo che tortura gli alunni o l'ennesima storia di bullismo ma, più semplicemente, di un metodo didattico che ben si presta ad essere raccontato attraverso il piccolo schermo. La trasmissione in oggetto "Ti presento un libro" parla di letteratura, e ogni puntata racconta un libro o ciò che ruota attorno un libro. Fa parte del palinsesto di Iris, il canale tematico dedicato al cinema e alla letteratura, e mi sembrò immediatamente fatto su misura per noi. Nel giro di pochi minuti era già stabilito tutto, era fatta! Nel giro di pochi giorni sarebbe venuta una troupe di cineoperatori e in un oretta si doveva registrare la trasmissione. Non è stato per nulla difficile, non abbiamo dovuto far altro che comportarci come sempre avviene ( magari un po' più tranquilli ! ) e farci riprendere. Qualche studente è stato intervistato ( bravissimi Alessia e Marco) e da una quarantina di minuti di "girato" il montaggio ne ha poi ricavato i nostri 4 preziosi minuti. Spero che attraverso questo video tutti possano capire quello che abbiamo fatto sinora in classe, per un anno scolastico intero, andando contro qualsiasi logica della programmazione di dipartimento ma mettendoci del nostro. Abbiamo voluto credere in una cosa nuova, che vede gli studenti non solo spettatori ma attori del processo di apprendimento, attraverso tappe che via via hanno coinvolto sempre più la loro attenzione, integrando alla letteratura arti e discipline più o meno affini come l'informatica, il cinema, il marketing. Personalmente trovo sia stata l'esperienza didattica più riuscita e interessante della mia breve carriera di insegnante, e il fatto che non sia stata imposta dall'alto ma partorita da un momento di sconforto mi fa ben sperare. Una sorta di buon augurio per tutti quei docenti che sentono di non trovare più una chiave per coinvolgere i propri studenti, perchè proprio nel momento in cui ci si rende conto che qualcosa non va possono venir fuori risorse inaspettate. Siate creativi miei cari colleghi, divertitevi e sperimentate, perchè, ve lo posso assicurare, così si imapara di più e meglio. Ringrazio anche i genitori degli studenti della 2ast che hanno creduto in questo progetto e mi hanno appoggiato, e tutti gli spettatori esterni che in questi mesi hanno seguito numerosissimi PAROLEFANTASIOSE e gli altri blog del progetto. I colleghi di scuole lontane ( Bomba!)in Italia e nel mondo, blogger naviganti, giornalisti e ricercatori. Tranquilli, PAROLEFANTASIOSE non muore, continuerà anche nel caso dovessi finire in un'altra scuola, e per l'anno prossimo ho in mente una cosa nuova.......che ha a che fare con il sommo poeta..........
Avete indovinato?
p.s. Ma ora guardatevi il video ( avevo 39° di febbre, perdonatemi l'evidente presenza sfatta)


Simone Ariot

lunedì 3 maggio 2010

I'm arriving

Scusate, perdonatemi. Non mi faccio sentire da un po' lo so. E' che talvolta gli impegni sono troppi, il tempo è poco e le scadenze si fanno sotto. A volte è anche una questione di ispirazione. Quando ce l'hai magari è notte , sei lontano da un pc e non puoi annotarti quello che hai da dire. E così rinvii, aspetti e aspetti ancora, fino al momento in cui l'ispirazione speri possa arrivare da un momento all'altro mentre sei seduto al pc.
Beh, sappiate che questo momento ancora non è arrivato, ma arriverà presto, entro al mx 4 giorni. Perchè ho qualcosa tra le mani che scotta, e ha a che fare con questo blog.......con la televisione......con la mia splendida classe 2ast, con molte cose.
Quindi state in allerta, entro pochi giorni post con grandi novità!
Intanto ascoltatevi questa canzone, un classico, che è stata rifatta in un' infinità di versioni, dal punk al raggae, dal jazz al soul, dal pop, all' etnico. Sublime. Personalmente l'ho scelta come canzone da mattere al mio funerale.Soprattutto se dovessi morire giovane e in circostanze estreme.

Simone Ariot

domenica 18 aprile 2010

Sunday morning

Domenica mattina la pioggia sta cadendo.
Comincia così questa canzone dei Maroon Five, descrivendo quell'atmosfera che più si va avanti più s'impara a riconoscere non solo dal calendario ma da un miscuglio di sensazioni, sapori, odori, abitudini.
Già, ma perchè deve piovere quasi sempre la domenica mattina? forse per farci venir voglia di starcene a letto, di poltrire senza alzarsi, sfogliando una rivista o navigando a casaccio con il nostro notebook. Un tempo la domenica mattina era sinonimo di solenne messa, solenne ritrovo per salutare qualche compaesano, solenne pranzo di famiglia e spesso e volentieri solenne noia che ne scaturiva. Oggi la domenica mattina è sempre più uno spazio di attesa, un momento fuori dal tempo, non normalmente scandito da ritmi frenetici e impegni che infittiscono l'agenda. Una sorta di tempo sospeso. Già Leopardi nel "sabato del villaggio" ce lo diceva bene: la domenica è l'illusione della felicità, è il constatare che se ne andrà velocemente riportandoci nei nostri grigi e quotidiani lunedì martedì mercoledì giovedì venerdì , per poi trovare il sabato ( non del mattino purtroppo) in cui poter assaporare la fine del tram tram. Per il nostro amico poeta era proprio il sabato il momento migliore, perchè portava l'illusione della felicità del giorno dopo, felicità che non sarebbe mai arrivata!
Ora sto qui, sul letto, sveglio da tre ore ma senza la voglia di alzarmi a fare e non fare molte cose, aspettando l'ora di pranzo. La domenica mattina, a meno che non si sia programmato qualcosa, la vedo un po' così. Preferisco di gran lunga il sabato mattina, anche se da due anni a questa parte purtroppo lavoro. Il sabato mattino e la sveglia alle nove, doccia con calma, uscita per comprare i giornale, colazione da Sorarù, qualche volto che non vedevo da tempo per il più classico "E chi si vede? come stai, ti vedo bene" e falsità varie, passeggiatina e visione delle donne più belle. Perchè chissà perchè, ma il sabato mattino le donne sono più belle e raffinate.

Simone Ariot

lunedì 5 aprile 2010

Quando i media si trasformano



L' M.I.T è un posto speciale. Le migliori menti del mondo se ne stanno lì, a volte in una quasi assenza di socialità, a sperimentare tecnologie e algoritmi che spiegano le più grandi innovazioni o scoperte dei nostri tempi. E' una sorta di tempio del progresso, qualcosa che supera Harward perchè più che posto dove studiare è un posto dove inventare e innovare. Giovani ricercatori a cui sono affidati milioni e milioni di dollari per sperimentare le loro idee. Henry Jenkins al MIT ( da pronunciarsi emmaitì) è direttore del Comparative Media Studies Program dove si occupa del rapporto tra cultura umana e nuove tecnologie,oltre ad essere autore di numerosi saggi di successo. In questo nuovo libro, con piglio decisamente anglosassone, il prof. Jenkins analizza un presente dominato da un cambiamento in atto in cui le nuove tecnologie la fanno da protagoniste. Un cambiamento che non è solo sulla carta e riferito alla tecnologia, ma alla ripercussione che sta avendo sugli individui. Sta cambiando il modo di imparare, di informarsi, di valutare le cose, di interagire con i propri simili, di organizzarsi la vita. Un cambiamento talmente veloce che rimanere al passo e aggiornasi è diventato per alcuni un vero e proprio lavoro. Per altri, invece, la tecnologia è passata vicino sfiorandoli e non coinvolgendoli. Si tratta spesso di soggetti deboli o tutelati per i quali non è fondamentale adeguarsi. A volte si tratta di soggetti privilegiati, che possono permettersi di stare lontano da un mondo che li spaventa. Questo libro è come una sorta di reportage, i cui soggetti non sono i mezzi di comunicazione ( internet, telefonini, sms, mail....)ma coloro che li usano per comunicare, cioè noi. E' buffo ma quasi non ce ne rendiamo conto, anzi direi che non c'è minimamente la consapevolezza di quello che sta accadendo poichè quando ci sono grandi rivoluzioni coloro i quali le stanno vivendo non se ne accorgono nemmeno. Ma questi ultimi anni stanno segnando un'epoca, o meglio un vero e proprio periodo storico. Fra mille anni segneranno il 2000 come il momento in cui comincia l'interconnetività, l'abolizione delle barriere che segnano le distanze geografiche, l'esplosione del multitasking intesa come capacità di fare e pensare molte cose contemporaneamente, sebbene lontanissime tra loro per analogie o forma. Un mondo che ci condiziona molto ma non ancora troppo, che procede a velocità separate a seconda del luogo e della condizione sociale che si trova. La scuola ne ha paura, molta paura, il mondo del lavoro la declama ma non la riesce a sfruttare, l'emotività e la socialità delle persone oscilla tra i vantaggi che riesce ad assicurarsi e le terribili ( talvolta) conseguenze a cui tutto ciò può portare. E' una sorta di prova per l'homo filosoficus attuale, individuo pensante e problematizzante continua ad autosottoporsi. IN questo libro si arriva alla radice di molti equivoci estirpandoli, individuando il vero problema e arginando al di fuori le banalità che ogni giorno si producono.
Simone Ariot

lunedì 29 marzo 2010

Il sapore del sole



Basta fermarsi ed aspettare. All'aperto sia inteso, e possibilmente in campagna. Ma anche in città va bene ugualmente. In inverno non è semplice, in autunno quasi impossibile, ma primavera ed estate garantiscono ottimi risultati. Certo non lo si può scegliere dal menù e nemmeno prenotare in anticipo, ma quando arriva, magari inaspettato, assaggiarlo diventa un'esperienza unica. Se in più non lo si vedeva/sentiva/toccava da mesi......beh allora il risultato è sensazionale.
Non sto parlando di un cannolo sicialano né di un babà napoletano, ma di una cosa molto più grande, infinitamente: Il sole.
Non m'interessano le sue caratteristiche tecnico-scientifiche e nemmeno sapere a quanti milioni di km se ne sta da noi, ma so solo che quando mi bacia e mi accarezza sento sempre qualcosa di indefinibile. Ieri mi sono seduto su una panchina in mezzo a un prato. Ho rivolto lo sguardo verso l'alto, chiudendo gli occhi e aspettando. Cosa? Semplicemente che il suo calore facesse effetto su di me!E' come una sorta di droga o di medicina. L'effetto, in chi scrive, è assicurato. Si tratta solo di saper pazientare qualche secondo. Effetti collaterali non ce ne sono mentre quelli fisiologici sono superbi. Dopo pochi secondi si entra in una sorta di sogno in cui si riscoprono immagini, ricordi, odori e sensazioni abbandonate, dove l'estate è protagonista. Dimenticavo di sottolineare che quest'esperienza estetica è consigliata solo a chi ama l'estate immaginandola come la Sola Amante possibile fra le quattro stagioni. Un'esperienza pericolosa e difficile perchè potrebbe portare alla dipendenza. Io ne soffro ma non ho alcuna intenzione di curarmi. Se potessi prolungare l'estate e trasformarla in una stagione unica che dura 365 giorni sarebbe il massimo. D'altra parte per me l'estate è il tempo che scelgo, quello in cui nulla è imposto e in cui mi sento veramente vivo. Mi dicono che d'estate sono un'altra persona, più sorridente e più felice, ma soprattutto più libero. Più libero perchè sollevato da molti impegni professionali ma allo stesso tempo più libero anche mentalmente, più leggero. D'altra parte, per me, estate sigifica vacanze, e per uno che è uscito dalla scuola come studente per rientrarci immediatamente come insegnante l'estate è soprattutto il momento della grande sospensione dell'attività scolastica. Un mese e mezzo di non lavoro ( non tre come molti credono) e un altro mese di mezzo lavoro considerando che gli esami e settembre non sono la stessa cosa che l'insegnamento tradizionale. E in quei giorni rinasco. Prendo la moto e me ne vado al mare, in laguna, oppure in collina per perdermi fra i vigneti. La sera amo uscire in bici, con una vecchia bici dai freni a bacchetta, o con la mia 500 degli anni 60, macchinetta mitica entrata nella storia.........Ed è il sole che mi accompagna in tutto ciò, anche la notte, perchè guardo la luna e so che dopo poche ore il suo fratello maggiore tornerà a trovarmi, garantendomi luce e ........felicità.
p.s: Questo era un post felice, ogni tanto ci vuole!!!!
Simone Ariot

mercoledì 17 marzo 2010

Diamo un voto ai professori !



I nostri amici americani sono sempre più avanti. Non deve stupire quindi se viene proprio da loro il suggerimento di estendere la valutazione scolastica non solo agli studenti ma anche ....ai professori. Non gioite troppo miei cari alunni-lettori, si tratta solo di una proposta che in ogni caso avrebbe un valori solamente indicativo. Ma se in Italia gli insegnanti possono ancora dormire sogni tranquilli protetti da un garantismo che fa più danni che altro, nel nuovo continente quella del social rating è un'abitudine diffusa e consolidata. Con questo termine composto si intende appunto la valutazione da parte dell'utenza di un servizio, in questo caso offerto dalla scuola e dalle Università.
Come spiegano nell'articolo di Wired "presenza alle lezioni, disponibilità in orario di ricevimento, cortesia e interazione via mail, comportamento in aula e agli esami, capacità di esposizione e grado di aggiornamento tecnologico del professore e delle lezioni sono i parametri attraverso i quali gli studenti valutano i propri professori". Una dinamica di questo tipo, se resa pubblica, condiziona la percezione di un'istituzione educativa, indirizzandone gli sguardi del mondo intero, nel bene e nel male. Questo cosa significa? Ad esempio che un docente con un rating molto alto possa ottenere un'offerta di lavoro da una scuola più prestigiosa, con un considerevole aumento di stipendio. In altri paesi occidentali è la regola, nel belpaese si è tentata la via di internet e grazie a un sito si sono contate 28.000 valutazioni, con qualche minaccia di querela. C'è da chiedersi quanto possano essere obiettive le valutazioni di studenti che per ovvi motivi sono spesso portatori sani di odio nei confronti della categoria docente, ma allo stesso tempo è impossibile negare l'utilità di un sistema che generalmente offre più vantaggi che altro. Non solo agli studenti, ma anche e soprattutto agli insegnanti. Qualsiasi discorso inerente meritocrazia e introduzione dei livelli di carriera tra i prof. italiani (unica professione al mondo in cui non esiste la possibilità di carriera) non può prescindere da una riflessione sulla valutazione. Attualmente, infatti, il miglior insegnante d'Italia ed il peggiore non solo guadagnano lo stesso stipendio, ma il secondo gode dell'impunità nel caso decidesse di non faticare e abbandonarsi ad una sorta di vacanza perenne fra le mura scolastiche, faticando chiaramente di meno. E voi cosa ne pensate? Quali parametri utilizzereste per valutare i vostri prof. del presente o del passato? Avete esempi celebri da raccontare? Sono curioso. Molto curioso.

Simone Ariot