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martedì 30 novembre 2010

Un Maestro in meno, Mario Monicelli

Il maestro se n'è andato.

Forse era rimasto solo. Unico e raro cantore delle storie semplici e difficili da raccontare.

O forse non accettava la perdita dell'autonomia che da vecchi lascia gli uomini mezzi padroni di sè stessi.

Mario Monicelli, regista 95enne morto suicida in un ospedale romano, gettandosi dalla finestra del reparto di urologia dov'era ricoverato, era uno dei grandi che hanno fatto grande Roma e L'Italia. Roma perchè l'amava, lui che visse per tutta una vita a Monti, quartiere dallo spirito popolare ed elegante al tempo stesso, l'Italia perchè contenitore delle storie che ha raccontato. Storie burlesche come quelle dell'Armata Brancaleone, storie di vita di donne come in "Speriamo che sia femmina", dove dirige un cast eccezionale in una commedia corale condita in salsa rosa ( di donna s'intende).

Mario Monicelli incazzato e incazzoso che da Santoro auspica alla rivoluzione ( "ce l'hanno avuta tutti, anche in Russia, in Francia, noi ancora no"), Mario Monicelli caciarone e adolescente che dirige "Amici miei". Ma che dire ancora. Nulla, perchè ha già detto tutto lui, dall'alto dei suoi splendidi 95 anni portati con dignità e lucidità senza cercare la pensione o la tranquillità interiore. "Ha scelto di morire come sapeva fare, con curiosità" dice la matrona delle commedie italiane, Stefania Sandrelli, triste per dramma di una morte che se si capisce si fatica ad accettare.

Io lo capisco.

Perdere l'autonomia quando l'autonomia ci ha dato tutto, quando vivi per e grazie all'autonomia, non dev'essere semplice. E allora le scelte estreme. La consapevolezza di avere un corpo che si avvicina alla bara e l'impossibilità di fermarne la corsa, e si accelera il tutto, e si va a volare.

Sembra un po' un suo film, forse stava semplicemente cercando un passaggio nascosto, o forse Ugo ( Tognazzi) gli aveva dato l'indicazione sbagliata. La supercazzola con scappellamento era destra, non a sinistra. E senza antani per di più.

Mario che ci combini!

Simone Ariot

lunedì 22 novembre 2010

C'era una volta un mito


Gandhi, Martin Luther king, Che Guevara, Madre Teresa, Fabrizio De Andrè, Cary Grant, Gorbaciov, Carl Lewis, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Peppino Impastato e il rivoltoso sconosciuto di piazza Tiananmen. Cosa sono? Icone.
Volti che rappresentano ideali, simboli di una vita spesa per difendere un valore, un sogno, una speranza. "I have a dream" ripeteva il 28 agosto 1963 il pastore protestante, attivista per i diritti umani e politico americano Martin Luther King. Lo ripeteva in modo scandito e ricorsivo, fermo su un tono alto di voce e dopo pochi giorni ( in un mondo senza internet) i giovani di tutto il mondo ripetevano a voce alta “I Have a dream”. Da quel giorno sognare è diventato più civile e più sociale, è diventato un sogno collettivo ( forse Inception ha preso spunto da qui?) e ha colpito dritto dritto al cuore di mezzo mondo. I volti di questi uomini e donne sono associati a battaglie, ad ingiustizie vissute sulla propria pelle e alla tenacia per combattere anche quando i risultati dei propri combattimenti non riguardavano se stessi ma gli altri, i deboli. Questi volti sono comparsi un po’ alla volta nella storia, ma ogni epoca ha avuto il proprio. Ogni camera di ogni studente ha avuto un’icona positiva e sognatrice appesa al muro, a dare il benvenuto.

Oggi, nell’epoca del nichilismo divagante, delle veline e dei calciatori tatuati, delle lauree honoris causa regalate ai motociclisti o dei pareri filosofici richiesti ai tronisti, le icone sono morte. Difficile trovarne, difficile capire chi possa rappresentare un modello positivo vero, che non caschi nel dimenticatoio come i pantaloni a vita bassa o le spalline imbottite.

Oggi, tra viventi e contemporanei, chi sono i miti? Chi rimarrà nel tempo? Chi è un modello per chi vuole ancora avere un sogno, per chi ancora lo cerca, per chi aspetta uno stimolo?

Commentate e rispondete pure, aspetto d'essere illuminato.

Simone Ariot

domenica 14 novembre 2010

L’Italia è una Repubblica gerontocratica*, fondata sulla vecchiaia.


…..La sovranità appartiene ai vecchi, che la esercitano rincoglionendosi un po’ alla volta.
Già, perché nell’epoca dell’assenza di certezze, di ricerca di punti fermi che svaniscono e di riferimenti che si perdono, quella della vecchiaia al potere rimane una delle poche verità e consapevolezze che abbiamo in questo stanco, vecchio e immobile paese.
L’Italia è un paese per vecchi.
Non serve essere ispirati da dati che ci parlano di crescita dimezzata rispetto ai bei tempi degli anni 50’, e non possiamo consolarci nelle spiegazioni demografiche comprensibili semplicemente passeggiando in città, nel tentativo più o meno abile di schivare branchi di anziani soli o male accompagnati. Perché la vecchiaia che fa male all’Italia non sta nel nonno di turno che porta il nipotino al parco giochi, ma nel nonno di turno che presiede i consigli di amministrazione, la presidenza del Consiglio, della Repubblica, del rettorato universitario, delle municipalizzate, del consiglio nazionale della magistratura e di tutti i centri del potere.
Un’Italia in cui il presidente del consiglio ha 74 anni contro i 49 di Obama o i 57 di Tony Blair ( che comunque si è già ritirato), un’Italia in cui l’allora ottantacinquenne Andreotti disse che Napolitano era più adatto di lui a fare il presidente in quanto più giovane ( eh si, aveva ottant’anni!), un’Italia in cui nelle scuole è praticamente impossibile trovare insegnanti con meno di quarant’anni o presidi con meno di sessanta. Un’Italia ferma, con gli indirizzi mail dei vari direttori generali intasati perché tanto loro le mail non le leggono, perché non sanno come funzionano. Un’Italia in cui se hai meno di quarant’anni non sei considerato giovane, sei considerato un ragazzino a cui non affidare nemmeno una minima responsabilità.
Un’Italia in cui i giovani, magari trentenni, si sentono adolescenti for ever perché tanto è la sola cosa che gli si lascia fare, il solo luogo simbolico in cui rifugiarsi.
Lo diceva già Arnold Van Gennep, antropologo francese studioso dei riti di passaggio, quando nel 1909 pubblica a Parigi “Les rites de passage”, illuminante saggio in cui spiega che per passare da uno stadio all’altro ( ex. dalla condizione di celibe a quella di sposato) si deve passare per una fase di margine in cui ci si prepara all’entrata nella fase successiva( ex fidanzamento). Separazione, margine, riaggregazione, ma nella nostra Italia la fase di margine tra la vita infantile e quella adulta diventa infinita, una contemplativa e lunghissima attesa per abituarsi poi a stare dalla parte del potere, nella stanza dei bottoni in cui ci si riscatta per l’attesa durata una vita intera. E tutto si riperpetua.
Si lotta per assumere un senso e quando lo si assume ci si è ormai sporcati le mani dal sistema tanto odiato e ormai entrato nel proprio dna. Ed ecco allora il perpetuarsi del fattaccio, una nuova nomenclatura di vecchi al potere che sostituiscono altri vecchi ormai andati. Già, andati, non ritirati ma andati, perché come dice il già citato Andreotti il potere logora….chi non ce l’ha. Per questo non si ritira.
Facebook, mail, 3g, wi-fi, globalizzazione e internazionalizzazione, inglese fluently e net-working, business plan e workshop, green economy e long life learning…..termini difficili per chi è troppo giovane o troppo vecchio, non per chi sa bene che sono i termini che gestiscono la crescita economica di oggi, il futuro del domani.
Novità, cambi di rotta, di tendenza, intuizioni, ma tutto ciò non conta nelle menti di chi il potere ancora lo vuole tenere ben saldo a se stesso, lasciandosi scappare l’opportunità del cambiamento e perdendo il treno del progresso.
Un’Italia in cui il Bunga Bunga eccita e crea consenso, ma dell’alluvione più devastante degli ultimi 50 anni non se ne accorge nessuno. Tranne quei giovani con badile in una mano per spalare fango e I-Phone sull’altra per testimoniare l’evento, mentre i vecchi e geniali capi dei municipi aspettavano un fax ( strumento arcaico utile ormai solo agli archeologi) per essere avvisati di un disastro evitabile. Un’Italia in cui non si può liberamente navigare in internet senza essere schedati come terroristi, in cui esistono gli ordini professionali dalla forma medioevale e dal prestigio universale. L’Italia che la domenica mattina tira fuori il vestito buono per andare a messa e il pomeriggio grida sugli spalti degli stadi per sentirsi viva. Un’Italia ferma, che più ferma non si può. Ferma a studiarsi e specchiarsi, come una bella donna che a forza di stare davanti allo specchio invecchia mentre i suoi pretendenti si sono già stufati rivolgendosi ad altre bellezze.
Italia svegliati fuori, rottama i tuoi centenari Matusa al potere, tira fuori la voce e fatti ascoltare.
Partendo dai giovani, quindi una bella fetta di popolazione!
Almeno fino a sessant’anni.

Simone Ariot

mercoledì 10 novembre 2010

Il coraggio di ripartire. Da una motocicletta....

E’ una storia come poche, una storia di quelle che leggi scritte sui giornali e poi, quando te le trovi davanti, non ti sembra nemmeno che possa essere vera. Se poi a scriverle sui giornali devi essere tu, allora la faccenda si complica perché entri ancora più dentro la questione. La storia che vi accenno oggi la potrete leggere con più tranquillità sul prossimo numero di Accenni, rivista con cui collaboro che uscirà tra pochi giorni in edicola . Parte tutto da lontano, da una passione per le moto e soprattutto per le moto di una volta, quelle senza troppa plastica e colori sgarcianti, che mi ha concesso di avvicinarmi a questa storia di persone e motociclette, di sentimenti e fantastici mezzi meccanici.

Lui si chiama Umberto Borile, ed è un artigiano con bottega a Vo’ Euganeo, in provincia di Padova, dove assembla una alla volta straordinarie moto scrambler, essenziali, bellissime. Fin qui nulla di strano, anche se vedendo le sue moto di strano ci sarebbe molto, perché sono belle e con l’anima. Un paio d’anni fa la decisione di cedere il marchio ad un’azienda più grande, il cambio d'interesse per un business parallelo, e la decisione di fare delle moto solo un passatempo. Poi il vuoto, provocato da un fattaccio. A soli 20 anni Riccardo, figlio di Umberto, muore tragicamente in una calda giornata estiva. Un ragazzo che anche lui amava le moto, un ragazzo come tanti altri ventenni che sogna di emulare il Valentino nazionale ma che se ne sta bene con i piedi per terra, un ragazzo che aveva il sogno di portare la gente a scoprire i colli euganei, a bordo dei Quad, un ragazzo che non c’è più. Disperazione, rabbia, difficoltà nell’accettare portano Umberto a chiudersi in se stesso, a lasciare tutto, a non volerne sapere più nulla di nulla.

Poi, senza preavviso, suona il campanello una coppia genitore-figlio che gli propone di rimettersi in campo nel mondo della progettazione motociclistica. Lo corteggiano, lo spronano a ritirar fuori quelle doti e quella passione che l’avevano reso uno dei progettisti più stimati al mondo. Così, quasi per caso, e grazie all’insistenza dei due angeli della provvidenza, Umberto si rimette in carreggiata e disegna la Ricki 500, una moto che vedrà luce in soli 20 esemplari, a 20.000 euro l’una, quasi tutte già prenotate. Una moto con un nome che ricorderà il figlio scomparso, una moto che Umberto vuole fare da solo, con il suo sudore e le sue mani, per dimostrare a se stesso e al mondo, ma soprattutto a chi da lassù lo guarda, che la vita deve andare avanti, anche dopo un tragico avvenimento. Ieri, nella sua piccola bottega di Vo’ Euganeo, tra lo scodinzolare del cane Silvestro e i telai di vecchi monocilindrici giapponesi pronti ad essere sezionati e trasformati, ho rivisto l’amore per la vita, la passione, la non rassegnazione di un uomo, ex artista corniciaio che decide di costruire moto, ex padre che non dimentica il passato, ora costruttore e fabbricatore di sogni, per chi ha sofferto e per chi gioirà. Grazie Umberto.

Simone Ariot

martedì 2 novembre 2010

H20, acqua, liquida, trasparente, leggera,importante. Pericolosa


Occupa il 70% del nostro organismo, la troviamo dappertutto, come uno spirito che secondo le leggende più remote ci segue dalla nascita alla morte, rendendosi indispensabile e allo stesso tempo trasparente. Non solo nel colore o nella forma, è trasparente nell’importanza diretta e immediata che le attribuiamo. Di acqua nella nostra vita ce n’è talmente tanta che non ci pensiamo nemmeno, in qualsiasi ora del giorno la tocchiamo, l’assumiamo, l’espelliamo, senza nemmeno rendercene conto, senza fermarci un momento e dire: “Questa è acqua”. Nuotiamo nell’acqua prima ancora di nascere, ci abbandoniamo in lei nella calde giornate estive, quando “mare” risulta essere una delle parole più pronunciate, la surfiamo quando è fredda e solida sotto forma di neve o la sprechiamo in continuazione anche quando pensiamo di farne un uso maturo e responsabile. Fredda o calda, liscia o gassata, l’acqua è sulla bocca, sulla pelle, dentro la pelle e sotto le scarpe di tutti. Già, sotto le scarpe, o gli stivali di gomma piuttosto, che in questi giorni di novembre difficilmente abbandoneremo. Metri cubi, rigagnoli, fiumi o fiumiciattoli, laghi e oceani di proporzione urbana, lente e costanti masse d’acqua che scivolano incessanti, come un treno o un continente alla deriva che non riesce a star dentro ai propri confini, i propri argini. Acqua sporca, marrone, puzzolente, acqua che sale e non scende, che sporca e non pulisce, acqua che distrugge e che rovina, che uccide e non fa bene. L’acqua è la stessa eppure cambia, oggi non ci serve, oggi ci fa male. L’acqua s’incazza forse, ci dice che c’è , che è importante, che non possiamo far finta di nulla e dimenticarci di lei. Ma non basta e ci sfida, sfida la nostra impotenza, quel nostro starcene a guardare fermi e rintrucilliti, senza saper bene cosa fare. Si muove la macchina dei soccorsi, si distribuiscono sacchi, si arginano fiumi e si salvano persone. Ma lei è lì, sta lì, fino a quando non è stanca. Poi, ad un certo punto, si ritrae, sembra fatta, “ora è tutto passato” pensiamo, invece no, falso allarme, ci voleva solo fare uno scherzo. L’acqua è la natura, è tutto ciò, un contenuto nel contenitore che non s’è sempre scelta, un ospite inquietante ed inatteso, conosciuto ed abusato. Sarà per questo che a volte s’incazza? Forse si.

Simone Ariot