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giovedì 14 marzo 2013

La moda di non rispondere alle mail




C’è una nuova moda che sta dilagando, trovando sempre più terreno fertile in Italia.
Non parliamo di fashion e nemmeno di cucina, ma di comunicazione, una delle parole più usate e abusate degli ultimi anni. Tutti vogliono occuparsene, tutti sono comunicatori, tutti sono affiancati nella loro quotidianità da tecnologie e aggeggini che dovrebbero facilitarla. Per contrappasso a questo fermento, qualche inconsapevole pioniere ha aperto la via al nuovo, dilagante e chiccosissimo trendy:

NON RISPONDERE ALLE MAIL
Ogni giorno, nel Belpaese, vengono spedite più di 350 mln di mail. Un’infinità. E’ come se ognuno di noi , compreso chi la mail non la usa, i bambini e gli analfabeti digitali, ne spedisse  sei al giorno. Io ne spedisco almeno 30, forse tu che mi stai leggendo solo una, o forse cento. La mia vicina di casa sicuramente nessuna, e nemmeno sua figlia. Quindi, facendo la media, i conti tornano.
Vi sono però mail e mail. Quelle di lavoro, con importanti allegati, dati specifici, elementi spesso vitali per poter svolgere quotidianamente la propria professione. Poi ci sono quelle amicali, con inviti semiufficiali a feste o matrimoni, auguri di Natale e ricorrenze, lettere d’amore o dichiarazioni d’odio, resoconti sull’ultimo museo visto o la prossima vacanza progettata. Poi vi sono quelle pubblicitarie, spam a non finire, che alcuni riescono ad evitare ed altri, senza colpa, ne diventano vittime.
Tra queste 350 milioni di mail vi sono poi mail con richieste. Mail dalle quali ci si aspetta una risposta, spesso importante. Si tratta di  mail inviate molto spesso a persone che non si conoscono ma di cui si riesce, a volte nemmeno troppo facilmente, a procurarsi il contatto, quasi sempre istituzionale o aziendale.
Mail che arrivano, ma non sempre. Mail che vengono lette (e se arrivano vengono quasi sempre lette). Mail a cui non segue una risposta, anche quando la richiesta di rispondere è esplicita. (Vi prego di rispondermi, anche con un semplice NO, per consentirmi di procedere con qualche eventuale altro interlocutore)
Molti professionisti di vari settori, come il sottoscritto, si sono abituati a precedere il potenziale interlocutore. Ad arrivare da lui per proporsi prima di essere a sua volta cercati. Per presentare un progetto, per chiedere di essere ascoltati, anche solo per un paio di minuti. I contenuti di queste mail sono vari. Ci sono ipotetiche soluzioni a determinati problemi che il potenziale interlocutore ha ma che non riesce a risolvere, ci sono proposte per allargare il business, ci sono richieste di partnership e molto altro. Chi sta dall’altra parte, chi le riceve e poi non risponde, forse non si è mai trovato nei panni di chi propone, di chi cerca di accendere un motore sapendo bene dove sta la benzina, dove mettere la chiave, dove provare a sgasare per vedere se funziona. Ma si trova davanti a qualcuno che decide di tagliare i fili elettrici, di fermare la comunicazione appena prima che possa partire.
Nel frattempo si perde tempo e risorse. Si fermano progetti senza nemmeno averne discusso e confrontati, si assiste uno dopo l’altro al veder morire idee, aziende, progetti.
La soluzione a molti disastri, la penso così, potrebbe essere in una delle innumerevoli mail ferme da qualche parte, in un recipiente intasato o nella mancanza di curiosità da parte del ricevente. Allora mi chiedo a cosa serva la tecnologia, le mail e tutti gli strumenti che oggi abbiamo per poterle leggere in qualsiasi punto ci si trovi. Più si moltiplicano questi aggeggi, più riscontro una difficoltà a comunicare attraverso questo (ancora straordinario) strumento.
A me, personalmente, capita ogni giorno. Ho un’idea, la studio un po’, la butto giù sotto forma di progetto, trovo l’interlocutore giusto, mi procuro il contatto……e via. Spedita. E sempre personalizzata.
Poi la morte. Il nulla, la non risposta.
Nell’ultima settimana mi è capitato 6 volte. Una al giorno (domenica non ne ho mandate). Mail per proposte di nuovi progetti, mail per richieste di interviste ( qui parliamo di lavoro, non di idee o voli pindarici), per richieste specifiche a chi , di fatto, offriva il suo contatto per offrire informazioni. In ordine:
1.      Caporedattore di nota testata nazionale che mi aveva commissionato un articolo dopo una mia proposta, ma che al momento di rispondermi per la conferma o meno della pubblicazione ha smesso di rispondere. Però si è tenuto il file con l’idea, la descrizione del progetto e la bozza di articolo
2.     Mail all’ufficio stampa della ASI (agenzia spaziale italiana), quindi parliamo di un professionista della comunicazione. Nella mail chiedevo una semplice conferma di un dato. Bastavano due lettere. Si o no.
3.     Mail a un venditore su ebay. Qui siamo al colmo. Mette un annuncio, trova l’unico folle disposto a comprare la sua merce, e non risponde alla richiesta di un codice iban per fare il bonifico. Contento lui
4.     Mail a un dirigente statale per comunicargli una cosa che lo riguarda almeno indirettamente, e che riguarda ancora più me, per la quale bastava la risposta: “Ricevuto”. Oppure, “Non me ne frega un ficco secco”; Almeno me la mettevo via.
5.     Poi ce n’è un’altra. Non posso rivelarla. Il destinatario probabilmente mi sta leggendo.
6.     Poi ce n’è un’altra ancora. Anche questa non posso rivelarla. Perché il dramma è che poi, nonostante ci si senta nel giusto, si ha paura di una reazione negativa da parte dell’interlocutore. Potrebbe affossare il progetto o semplicemente sbarrare ulteriormente le porte. Tanto l’ha già fatto. Probabilmente.

Ora mi chiedo, anzi vi chiedo. Anche voi vi sentite vittime di questo buco nero? E se invece ne foste gli artefici, potreste spiegarmi perché lo fate, o meglio, potreste suggerirmi come procedere? Magari è solo una questione di forma.

Il massimo, comunque, è stato tre anni fa. Questa ve la racconto, e sarò breve.
Avevo sviluppato un progetto autonomo, stava andando molto bene, e i risultati di questo progetto potevano interessare la comunità scientifica di quell’ambito disciplinare (psicopedagogia e didattica).
Ho deciso quindi di raccogliere tutti i contatti degli specialisti la cui disciplina poteva essere interessata dai risultati di quel progetto. Due settimane ininterrotte di raccolta dati. Circa 1500 nomi, quindi 1500 contatti mail. Tutti, dal primo all’ultimo, collegati o dipendenti dell’Università italiana. I loro indirizzi erano pubblici e inseriti in Internet.
Avevo inserito la conferma di recapito, quindi sapevo benissimo chi avrebbe avuto modo di riceverla. Questi gli sconfortanti  risultati, se volete commentateli, io mi  astengo.
Mail inviate: 1500
Mail mai arrivate perché l’indirizzo reso pubblico era sbagliato o non esisteva: 400
Mail arrivate ma bloccate per recipiente intasato (quelli che non leggono le mail e non cancellano le mail vecchie): 400
Mail arrivate e non lette: 300
Mail lette a cui non si è risposto: 370
Mail con risposta di cortesia: 17 (“Grazie per l’informazione, bel progetto, valuterò)
Mail con  breve scambio di informazioni:  8 (interessati ma impossibilitati a seguire il progetto per scarsità di fondi)
Mail concretizzate in progetti realizzati: 4
Totale 1500
Di queste 4 mail, tre si sono rivelate fregature assolute per il sottoscritto. Una si è concretizzata, portando solo un po’ di gloria.
Ho fatto la stessa prova, mandando solo 10 mail a ricercatori negli Usa, perché ormai ero stanco, disilluso e incazzato.
10 mail mandate. 9 risposte
3 offerte di procedere con il progetto.
No comment
p.s: Non ho potuto procedere con il progetto. Ora che c’era l’interlocutore, a vietarmelo è stata la scuola in cui era inserito il progetto, quindi il ministero.
Bene.
Simone Ariot

lunedì 4 marzo 2013

Alla ricerca della bellezza

Raffaello. Tre Grazie

Oggi, a scuola, si parlava di bellezza, di arte, di storia. Dall’Atene classica al Rinascimento fiorentino, di esempi in cui la storia ha portato bellezza ce ne sono molti. E sempre, senza alcuna eccezione, al principio di tutto c’era un buongoverno, retto da individui illuminati. Pericle, Lorenzo de Medici, persone accomunate dal culto bel bello, dalla ricerca di un armonia che si esplicita in palazzi, poemi, note di un pentagramma e molto altro. Una bellezze che si vede ancora oggi, perché rimane immutata, resistendo ai tempi e alla storia. Quando c’è fatica e perseveranza, le cose vengono fatte meglio, recitava il libro di testo, e rimangono. Uno spunto per avviare una discussione con gli studenti, chiedendo loro di indicare la bellezza che vedono oggi, frutto del nostro tempo. E qui cominciavano i problemi.
“Difficile trovarla tra le cose nuove, non mi viene in mente niente”, racconta Laura. “Penso ai tramonti, alla natura. Ma in effetti non è opera dell’uomo…” gli fa eco Matteo seduto due banchi dietro. “La musica è una cosa bella, ma non so se sarà ricordata nel tempo. La musica che piace a me intendo” , prosegue Valentina. In pochi minuti si parla, la classe si anima, e si fa fatica a trovare una linea, un elemento che metta d’accordo tutti. “La bellezza è soggettiva”, sottolineano i ragazzi. Certo, ma alla richiesta di definirla, entrano in crisi, e non riescono ad andare oltre a “è bello ciò che piace”.
Viene fuori, un po’ alla volta, che la bellezza è sempre più assente nella loro vita, che ormai non si sa più cosa sia. Eppure, nell’Atene di Pericle e nel Rinascimento di Lorenzo, la bellezza era riconosciuta. Sarà forse perché i governanti erano i primi a volerla cercare? Forse si. Ma chi è adulto e ha voluto trovarla, la bellezza sa che c’è. A volte è nascosta, non ha visibilità, a volte viene confusa con altro, relegata ai margini, occultata. La scuola, la famiglia, le agenzie educative, potrebbero cercarla insieme a loro, insieme ai ragazzi. Una sorta di educazione alla bellezza. Sono sicuro che gli effetti si farebbero sentire. Anche senza Pericle o Lorenzo.

Simone Ariot
*questo testo è pubblicato anche su La Nuova Vicenza