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martedì 22 ottobre 2013

Un bilancio prima dell' addio (o arrivederci) di Parolefantasiose.


Nel settembre di quattro anni fa, con gli allora studenti della 2°ast del liceo Quadri di Vicenza, partiva l'esperimento Parolefantasiose, che non si limita a questo blog, ma fa da contenitore a quelli tematici che vedete in basso alla vostra destra, più quelli gestiti direttamente dagli studenti e nati per accogliere i loro racconti scritti a più mani ( a questo link un articolo in cui si spiega il progetto, qui invece un servizio video). Nato come un gioco, in poco tempo si è trasformato in progetto didattico, poi in metodologia didattica, infine in elemento inserito nella programmazione di classe. Un percorso duro e faticoso, ma assolutamente stimolante, con il merito di aver voluto sperimentare una nuova prassi che metteva al centro lo studente e il lavoro da lui realizzato. Poche settimane dopo la sua nascita, prendevano il via blog didattici tematici collegati a diversi romanzi, che a distanza di anni continuano ad accumulare visualizzazioni e commenti da parte del popolo del web, risultando utili strumenti di studio e approfondimento per studenti e insegnanti a noi estranei, ma accomunati da un oggetto comune, come un libro, un interesse, una ricerca didattica. Sette blog costruiti in tre anni, più di 250 post scritti (o articoli), oltre 300.000 visualizzazioni da tutto il mondo, diverse riviste cartacee e on line che se ne sono occupate, dipartimenti universitari che l'hanno voluto studiare, trasmissioni televisive che se ne sono occupate. Tutto ad opera degli studenti. Un attività di cui sono fiero ed orgoglioso promotore, in cui ho rischiato in prima persona, allontanandomi dalla sicurezza dei programmi scolastici, per cercare di arrivare allo stesso obiettivo: l'apprendimento. Ci sono stati anche degli errori, senz'altro. Ma, d'altra parte, sbagliando s'impara. E facendo si sbaglia. Se non si sbaglia mai, è perchè non si fa! Questo pensiero, che oggi sto esplicitando, dopo mesi di inattività in questo blog, viene dallo spunto che uno studioso dell'apprendimento mi ha inconsapevolmente lanciato. GianniMarconato, che da anni si occupa di apprendimento, tecnologie per la didattica, e formazione, ha appena scritto questa frase su Facebook: "La ricerca sull'apprendimento e sulla cognizione in questi ultimi 30 ha prodotto conoscenze come mai nei precedenti 30. Oggi sappiamo cose che 50 anni non sapevamo su come le persone imparano, su come funziona la mente, ma la scuola di oggi è in larga parte quella di 50 anni fa. Qualcosa non torna"
Già, qualcosa non torna. Anzi, molto non torna. Sembra quasi che la ricerca spiani la strada per dirci quello che potremo fare, ma la realtà poi ci indichi che è meglio non rischiare, non essere divergenti, ma seguire il flusso, mantenere lo status quo. Il progetto Parolefantasiose non è certamente ricerca con la R maiuscola, ma può essere inteso come uno strumento per la ricerca, o meglio un elemento su cui fare ricerca. E così è stato, e i risultati, empirici, ci sono stati. Nell'ambito della didattica delle materie letterarie, ad esempio, ho potuto sperimentare di come l'esercizio di scrittura puro,  non preceduto da lunghi percorsi di studio grammaticale, possa portare al medesimo risultato di competenza grammaticale, facilitando l'assimilazione delle norme grammaticali in modo diretto, senza far diventare la grammatica oggetto di studio ma semplice strumento. In due parole, è come imparare l'inglese perchè lo si parla molto e non perchè lo si studia senza mai parlarlo. Si impara meglio, divertendosi pure, e sviluppando altre competenze. Ma ancora maggiori sono state le competenze metodologiche, comunicative, organizzative che il progetto consentiva di sviluppare. Tutto certificato, eppure le resistenze di alcuni genitori, colleghi o dirigenti non sono mancate. In alcuni casi si è trattato di piccoli episodi che non compromettevano il mantenimento del percorso, che anzi lo stimolavano, perchè consentivano il confronto.  In altri casi, invece. lo hanno bloccato con la forza della burocrazia, delle norme, dell'ottusità.
Parolefantasiose e il suo percorso sono quindi momentaneamente in stand by, con la consapevolezza che tentare di percorrere una strada quando ci sono troppi impedimenti diventa pericoloso e controproducente. 
Ma quanto è stato fatto, rimane. Ciò che si è prodotto, anzi, continuerà a sopravvivere, a macinare pian pianino, consapevole di averci provato, e di esserci anche, almeno in parte, riusciti.
E' per questo che ringrazio tutte quelle persone, e sono molte, che mi hanno aiutato a mandare avanti il progetto, mandando invece seriamente a fanculo quelle persone, e sono poche, che ne hanno reso difficile la prosecuzione ma che, come sempre, possono bastare per bloccare qualcosa di nuovo.

A presto. Forse. 
Simone Ariot

mercoledì 17 luglio 2013

La scuola e la strana idea di meritocrazia


Come funzionano le cose nella scuola italiana.


Chi è fuori del mondo della scuola non conosce certe dinamiche, chi è dentro ormai non se ne accorge nemmeno più, ne diventa assuefatto, considerandole normali. Ma normali non sono, sono follia vera e propria. Facciamo qualche esempio, senza stare troppo sulla teoria.
Luca è il nuovo insegnante di informatica di vostro figlio, che frequenta la quarta liceo scientifico. Luca è laureato in informatica, si è anche abilitato in informatica frequentando con profitto una scuola si specializzazione post laurea, della durata biennale, con entrata a numero chiuso, ma non è ancora titolare di cattedra. Significa che ogni anno ha un incarico annuale, se arriva, rimesso in discussione di anno in anno. Può insegnare un anno a Vicenza, l’anno dopo a Bassano, quello dopo a Thiene. Luca è anche titolare di partita i.v.a, perché con i pc e l’informatica ci sa fare, e professore a contratto con l’Università, sempre informatica. Deve aggiornarsi non perché glielo chieda la scuola, ma perché glielo chiede il mondo. Le sue consulenze sono importanti strumenti per le imprese, e relazionandosi con esse Luca capisce quali siano quelle dimensioni effettivamente importanti della sua materia, potendo quindi interpretare la programmazione didattica considerando anche questi importanti aspetti. Vostro figlio e i suoi compagni si trovano bene con il professor Luca. E’ chiaro nelle spiegazioni, non fa differenze tra studente e studente, è giovane e comunicativo, e in più porta costantemente un contatto con il mondo reale, quello che si respira nelle aziende per le quali svolge consulenze. Le verifiche le porta corrette sempre in tempo e non fa assenze, perché anche se ha un po’ di febbre o il mal di schiena preferisce comunque andare a scuola. La classe fa enormi progressi, riesce ad accelerare nel programma e recuperare le lacune dell’anno precedente, quando ad insegnare informatica c’era un laureato in matematica che si limitava ad insegnare DOS e PASCAL. Siamo alla fine dell’anno, la classe studia molto, solo due studenti hanno l’insufficienza ma pare possano farcela a recuperare. Di sicuro Luca pretende molto, ma gli studenti gliene solo grati. A settembre anno nuovo e vita nuova. Luca non è confermato, perchè le graduatorie funzionano in modo assurdo e illogico, nonostante ci siano le ore per Luca, in quella scuola. Ma Anna, laureata in economia e a digiuno di informatica da vent’anni, prende il suo posto. Lei è titolare di cattedra. A nulla servono le proteste di preside e genitori, che vogliono ancora Luca, per preparare i ragazzi all’esame di maturità. Anna invece non piace ai ragazzi. Si comporta come chi pensa di sapere solo per un titolo posseduto, ma in realtà la disciplina non la conosce. Tra l’altro è laureata in economia, e l’economia (aziendale in particolare), la conosce piuttosto bene. Con l’informatica però non ci siamo. I ragazzi lo capiscono dopo pochi minuti. Anna tentenna, entra in difficoltà, prova a screditare il lavoro fatto dall’insegnante precedente, senza però riuscirci. Cominciano a volare i quattro, perché Anna nelle verifiche chiede definizioni a memoria tratte dal libro. A lei non interessa sapere che i vari programmi informatici per quella classe non hanno segreti, nemmeno rendersi conto che ognuno di loro è in grado di progettare pagine web. Queste cose lei non le sa fare, mentre chiedere definizioni di vecchi linguaggi applicativi richiede solo un controllo sul libro. A metà anno la classe è disperata, non un progresso sul programma, demotivazione alle stelle e timore per gli esami di maturità. Intanto il dirigente chiede un’ispezione ministeriale che non può portare nulla di fatto, nonostante sia evidente a tutti che le cose non funzionano. Nel frattempo, a giugno, Luca riceve la comunicazione di mancata assegnazione di una titolarità. Un altro anno da precario. A settembre, però, al momento della firma in provveditorato Luca non trova nessuna cattedra, e per tutto l’anno non riuscirà ad insegnare. La collega che l’ha preceduto, invece, ha firmato un contratto annuale, e pochi minuti dopo ha mandato alla scuola un certificato di maternità. Percepirà uno stipendio quasi completo e non insegnerà un giorno durante l’anno. Luca, invece, non sarà richiamato. Quella cattedra la daranno ad un supplente, nemmeno abilitato, laureato in matematica.
Lucia invece è una ragazza trentenne. E’ laureata in ingegneria e non è abilitata. Quasi per scherzo porta una domanda di supplenza ad una scuola di provincia. A settembre si libera una cattedra ma la sede è scomoda, quindi nessuno accetta. Priva di punteggio, di esperienza, di motivazione, Lucia accetta. Dopo una settimana porta un certificato di maternità. Non rientrerà mai più a scuola fino alla fine dell’anno. Al suo posto arriva Emma. Stessa situazione. Anche lei incinta. Anche lei in maternità. E arriva a questo punto il terzo supplente. Massimo è un ragazzo bravo e motivato, con molta voglia di lavorare. La materia che insegna lo appassiona, anche se era privo di esperienza. I colleghi più anziani lo notano, vedono soprattutto che ha idee geniali e riesce a trasmettere moltissimo ai suoi studenti. Sarebbe un perfetto professore di ruolo. Ma non è abilitato. Peccato, ma i corsi di abilitazione sono stati eliminati per la sua materia, e per l’anno prossimo ci sono poche probabilità di riconferma. A settembre, dopo un anno, la cattedra viene data definitivamente ad Antonio, trasferito da altra provincia. Sulla carta è laureato e abilitato, ha vent’anni di esperienza e quindi vent’anni di punteggio. Antonio entra in classe da primo in graduatoria. Peccato che non ci sappia fare. E ormai sono tre anni che i ragazzi di quella classe cambiano insegnante e si disaffezionano alla materia. Peccato, perché il loro territorio ha bisogno proprio di una forza lavoro che va in quella direzione. Massimo, intanto, ha accettato un lavoro come ingegnere in una di quelle aziende. Guadagna il doppio e, se porta risultati, viene premiato con un aumento di stipendio. La scuola ormai è solo un ricordo.

Giulia invece è una docente di ruolo di filosofia e storia al liceo. E’ entrata in ruolo giovanissima, perché giovanissima si è abilitata e laureata. Ama insegnare, e in città la conoscono tutti, dandosi da fare in ambito culturale. Giulia insegna per due anni nello stesso liceo, prende una terza e la porta in quarta. In due anni si è data da fare, ricoprendo incarichi e dicendosi sempre disponibile. I colleghi l’adorano perché è gentile e solare e le sue attività hanno fatto del bene alla scuola. Almeno in quattro occasioni la stampa di è occupata delle sue iniziative didattiche, sviluppate in una scuola che prima non conosceva cronaca, se non di brutte notizie. Poi, inaspettatamente, un settembre viene scalzata da Antonio. E’ burbero e meno preparato, fa molte assenze, spesso depresso, si rifiuta di usare il computer e di andare oltre la tradizionale lezione frontale. Se non impari a memoria quelle righe del libro, il 4 è assicurato. Se provi a parafrasarle, sarà al massimo un 5. Intanto Giulia ha ricominciato da capo in un’altra scuola, dove le sue competenze, i suoi progetti, i suoi successi, non sono stati valutati. Ricomincia da capo, da zero. Sua sorella gemella Marta, invece, che ha studiato scienze della comunicazione e lavora nel mondo delle aziende, ha cambiato in quattro anni 5 aziende. Dopo un successo veniva promossa, e i nuovi incarichi corrispondevano a nuove responsabilità e nuovi stipendi. Ora, a 34 anni, guadagna più del doppio di Giulia, perché i successi ottenuti  si sono tradotti in riconoscimenti. Giulia, invece, ha sempre lo stesso stipendio. La scuola dove insegna quest’anno, però, non è di fianco a casa. E’ a 40 km di distanza. E la benzina si fa sentire, su 1348 euro di stipendio mensile, che dopo 6  anni(4 di ruolo e 4 da precaria) continuano ad essere sempre uguali. Appena arriva nella nuova scuola viene accolta bene. Sono tutti contenti che lei sia lì. Dai colleghi ai genitori degli studenti. Perché la sua fama l’ha preceduta. Le viene proposto di curare un progetto per lo sviluppo di un nuovo indirizzo di studi all’interno di quel liceo. Le piacerebbe accettare, ma tra un anno, potrebbe presentarsi la stessa storia, e rischierebbe di lasciare a metà strada un progetto avviato e portato avanti da lei., dovendo suo malgrado cambiare scuola.   O, ancor peggio, consegnarlo a mani che non conosce, magari consegnarlo a chi lo snaturerebbe o lo potrebbe distruggere. A quel punto rifiuta, la vede solo come una fregatura. Ha 34 anni ma si sente fuori gioco, decide quindi di vivere la scuola con meno entusiasmo e meno lucida follia. E le sue risorse, negli anni migliori, vengono fatte morire.
Intanto, inconsapevole di queste dinamiche, un supercervellone meccanico da Venezia gestisce le graduatorie, assegnando punti in base a disgrazie dei familiari o precedenze inspiegabili a un comune mortale. Nella città di Giulia, però, ci sono ancora molte cattedre libere, anche nella scuola dove avrebbe voluto insegnare.  Verranno comunicate solo alla fine, e andranno a qualche supplente non abilitato o ancor peggio ad un docente che invece stava bene nella scuola in cui insegnava da tre anni.  Giulia, invece, se ne starà nella scuola di provincia dove, tra un anno, verrà rimessa in discussione.

Volete sentire altre storie? Tutte quelle raccontate sono storie vere. La follia italiana parte da qui.

Simone Ariot

giovedì 23 maggio 2013

Il Giro nel cuore dei Berici

Il passaggio dei campioni alla alita degli Ulivi

*testo completo dell'estratto pubblicato oggi su Il Giornale di Vicenza

Il mondo gira tondo. I giorni del Giro d’Italia piu' di altri, quando uomini e donne assetati d’ imprese si riversano in strada in attesa di qualcosa. Non sanno nemmeno loro ciò che cercano, ma aspettano il Giro, evento non semplicemente sportivo, che una volta l'anno si fa strada nella memoria dei percorsi che tocca. Non è il calcio dei mondiali, dove il sentimento nazionale abbatte di colpo depressioni e rivalità. Non è la maratona olimpica con in testa un connazionale, di cui  nelle  successive ore si conosce vita, morte e miracoli del nuovo eroe. Non è nemmeno il motociclismo, con l'Ago o il Valentino nazionale che fanno sognare un mondo troppo veloce e lontano. Sui colli Berici come al Gavia, nella bassa emiliana come nella neonata Napoli, il giro è molto di più. E' un fenomeno collettivo antimediatico, dove una telecamera passa in secondo piano e ci si dimentica della diretta tv. E' un'esperienza da vivere e da condividere, sentendo che la propria strada diventa regina, una volta sola. Poi, sarà tutto come prima, con le scritte esortative  sull'asfalto pronte a sbiadire, a segnare il tempo come una memoria che scorre e un giorno, salendo per Barbarano in piedi sui pedali, ci si sentirà Sella o Pozzato, e quella pedalata avrà il timbro della storia, incorniciata in taverna o sullo screen saver del computer.
Tifosi in attesa del passaggio

Sui colli Berici si fa fatica a trovare uno spazio lungo la strada, il popolo dei corridori vicentini non si è fatto attendere ed è accorso in massa, dimenticando per un giorno il proverbiale stakanovismo. Cda e ricerche di clienti nella giornata del giro sono rallentati. In molte aziende è stata la corsa ai permessi, ma se anche il Commenda è un ciclista, la chiusura anticipata è quasi obbligatoria. Perchè ce ne sono migliaia, di uomini lavoratori puri ma al contempo amanti del ciclismo, sport di fatica e tenacia. Come Luca, operaio di Monteviale, che ha staccato alle due e per non perdere tempo è andato in fabbrica direttamente in bici. O come Franco, per gli amici Franchino, che continua a fare battute nonostante abbia dichiarato fallimento la scorsa settimana. 
Il Giro non me lo tocca nessuno. La mia tragedia oggi è in pausa”. Sia chiaro, i tifosi veri o improvvisati, i curiosi, gli appassionati storici e dell'ultima ora, arrivano ai Berici in bici. Sia mai. Quella strada l'hanno percorsa decine o centinaia di volte, ma non è mai stata così. Complice un sole che scompare talvolta per pochi secondi e un vento che distende, i racconti e le storie che si ascoltano sono le più varie. Qui, dopo il sentiero della pietra, si parla di campioni del passato e del presente, di clienti persi e nuove strategie, di matrimoni che scoppiano e bimbi che nascono. Si parla di vita e di sogni, dei ragazzini che non pedalano più e degli amatoriali che rischiano l'infarto. I Berici, in questo santo giorno, tornano ad animarsi.  E se c'è' chi pensa sia il caso di pensare al Parco dei Berici, come sugli Euganei, c’è chi invece si prenota per l'anno prossimo, non sapendo se ancora una tappa passerà o partirà  da qui.
 Poi, superato Lapio e la sua temibile discesa, comincia la strada veloce di chi al Giro ci va in auto, di chi si affaccia ai balconi, di chi passa lì per caso. Mamme e nonne, pensionati e ragazzini attoniti, commessi fuori dai negozi e impiegati in pausa negli uffici aspettano tutti la volata a 60 km/h. L'arrivo e' una corsa, i media guadagnano la scena, la poesia si spegne e la musica sale.  Ma sulle strade dei Berici, passata la tappa, rimane impresso sull'asfalto il sudore dei campioni. Gia' questo, per Vicenza e gli infiniti appassionati che conta, e' un segno della storia. Dalla quale ripartire.

Simone Ariot

sabato 11 maggio 2013

Pre-diciottesimo, debutto in salsa trash

La dilagante moda degli inguardabili video di compleanno. Che per fortuna nel nord Italia devono ancora arrivare. Per ora.


Una volta si chiamava debutto in società. Rigorosamente sangue blu, rigorosamente  smoking e vestito lungo, con l’invito in carta intestata e l’immancabile r.s.v.p. che faceva tanto ricevimento in ambasciata. Una tradizione perpetuatasi per secoli e ancora non defunta, almeno tra chi di cognomi nella carta d’identità ne ha almeno tre, e che talvolta è fuoriuscita dai rigidi binari dei blasoni per coinvolgere l’alta e media borghesia.  
Oggi, di un debutto, non si sa che farsene. Le occasioni per incontrarsi si sono moltiplicate e per conoscersi e farsi conoscere si usano le tecnologie virtuali. Cosa c’è di meglio quindi di un bel video promozionale di se stessi, anticipando il proprio 18° compleanno? Pochi ingredienti e  semplici da reperire: Una videocamera, vestiti appariscenti, trucco esagerato per le femminucce e pettorali esibiti per i maschietti. ll gioco è fatto, basta aggiungere qualche centinaio di euro che uno dei tanti fotografi dell’ultima ora sarà pronto ad incassare. (un video prediciottesimo costa dagli 800 ai 1500 euro).
I pre-diciottesimi (ma non mancano i pre-matrimoniali, le pre-comunioni…) sono l’esigenza del momento, almeno  in sud Italia. Video di pochi minuti dove ragazzini sbarbati e giovincelle giunoniche sfilano in posa fra spiagge ai primi soli e campagne deserte, ammiccando alla telecamera con lo sguardo antispontaneo. Dietro le quinte aspettano i  genitori tutt’altro che imbarazzati, pronti a schiaffare il video su Youtube sperando nel cortocircuito da visualizzazioni. Se Amici di Maria de Filippi e Uomini e Donne hanno imperversato sul piccolo schermo per anni, qualcosa avranno pure seminato no? E allora eccoli, i nostri piccoli grandi protagonisti, all’alba della maggiore età, pronti a celebrarsi nel ridicolo, nel kitsch, nel pacchiano e, soprattutto, nell’inutile. Corpi sgraziati, a volte proprio inguardabili, che si strusciano sulla sabbia o si fidano all’infinito declamando senza dir nulla quel verso alla Zoolander che racconta l’inconsistenza. Le musiche di sottofondo rigorosamente hit parade da disco commerciale, battuta al punto giusto, in grado di rendere ancora più irreale la scena.
Ci si chiede quale tipo di homo minus habens  ( puer vel puella) sia celato dietro quel volto che finisce sulla rete del Mio tubo (Youtube), e che così manifestatamente è pronto a farsi sbranare dai commenti delle decine di migliaia di visitatori. Perché questi non mancano, e possiamo assicurarvi che quando se ne guarda uno parte una sorta di stimolo, una droga, che ti costringe al rimanere incollato sul pc e guardarne almeno altri venti. Una mania, una forza troppo grande per essere ostacolata, spiegata forse dall’inspiegabile che questo fenomeno porta con sé. Non uno o due, ma decine e decine  di minorenni  (numero che ogni giorno cresce) pronti a farsi immortalare, ognuno con le sue buone ragioni. C’è chi lo vede come il migliore dei regali possibili, chi una strategia per catalizzare l’attenzione su di sé,  per alcuni invece è il riscatto dopo un’adolescenza difficile che deve finalmente aprire le porte ad una vita adulta, fatta di lavoro che non c’è, famiglie che si sfaldano, nevrosi che crescono. Un mare di motivi per essere felici, almeno in quei quattro minuti, e sorridere o ammiccare al mondo. Possibilmente con la faccia da duro o tutte scosciate. Perché non si sa mai che tra  gli spettatori del video possa esserci qualche buon partito, e allora perché perdersi una simile occasione? Diciotto anni si fanno una volta sola. Per fortuna diciamo noi. Perché un video di pre-diciottesimo basta e avanza.



Simone Ariot

giovedì 2 maggio 2013

Parla come mangi. Fenomenologia delle parole-fastidio.



Ci sono parole che non sopporto. Spesso sono inglesi, ma le odio soprattutto quando sono inserite in discorsi in italiano. A volte riescono a trasformare totalmente un’idea, una cosa, un fenomeno, aggiungendo connotati positivi e rendendo l’oggetto o il mondo che rappresenta quasi unico. Basta pronunciarle che ci si sente subito proiettati dentro la cerchia giusta di quelli che contano e che ne condividono non solo il significato ma anche la filosofia. Spesso queste parole, se sostituite con il corrispettivo italiano da cui talvolta derivano, diventano inequivocabilmente inadatte, demodé, sciacquate.
Le parole fastidio le chiamo io.
Nel 2012 ha vinto la mia personale classifica il termine spread, esempio perfetto e assoluto di parola  incompresa dalla maggior parte della popolazione ma allo stesso tempo strautilizzata. In pochi mesi è passata dallo 0,001% di diffusione al 98%. Il 2% che non l’utilizzava era composto da NO global (parola fastidio dell’anno 2001) e suore di clausura, anche se si mormora che tra le grate del monastero canossiano di Verbania una suora poi morta pronunciò l’innominabile termine.
Nel 2013, con 7 mesi di anticipo, i bookmaker (parola fastidio del 2006, introdotta per le scommesse della finale mondiale vinta dall’Italia) ipotizzano che a contendersi il titolo saranno tre lemmi, a meno che nei prossimi 7 mesi non ne nascano di nuove. Start up, Mainstream, Hipster.

Giovani felici ed energici. Hanno appena perso il lavoro a tempo
 determinato e ora sono  pronti ad investire la liquidazione e l'eredità dei nonni
 in una start up che  progetta applicazioni per imparare a ruttare

La prima è ormai sulle bocche di tutti. Ognuno vuole aprire una start up, ma se gli si propone di aprire un’azienda rifiutano l’invito. Una start up è più cool (parola fastidio 1996), easy ( parimerito nel 1988 grazie alla riscoperta del pezzo di Lionel Richie), riguarda un prodotto o una tecnologia mobile ( 4° classificata per i bookmaker 2013, ma alcuni prevedono rimonte) a cui si accede grazie al proprio essere e sentirsi young!
Mainstream è la scoperta degli ultimi mesi. Chi la usa sa di non essere compreso. Nemmeno lui ne conosce il significato. Si sa che certe cose lo sono, certe altre no. E, attenzione, a mainstream non corrisponde necessariamente un significato positivo. Perché mainstream parla di un universo  convenzionale, dominante, di tendenza.

Vuoi mettere Hipster?! 

Per Wikipedia il termine indica giovani di classe medio-alta, istruiti e abitanti dei grandi centri urbani, che si interessano alla cultura alternativa (o presunta tale) - “non mainstream” - come l'indie rock, la musica elettronica, i film d'autore e le tendenze culturali emergenti. Un buon Hipster con i suoi baffi e i suoi ciuffi pazzi conosce il mondo mainstream  molto bene, così bene da poterlo superare, surclassare e annientare. Gli Hipster sono una tendenza minoritaria, radical chic ( parola fastidio 2003 ), fixed adepti e un po’ Straight edge. Non sapete cosa significa? Allora siete proprio out! Fumatevi un joint che è meglio.

In mezzo a molte Lamborghini che rappresentano la tendenza mainstream, un'auto hipster si fa riconoscere

Simone Ariot

sabato 6 aprile 2013

Arcangelo Persano, un gallo che non smette mai di cantare







A volte i galli cantano  in pieno centro storico. E non solo alle cinque di mattina. 
Possono farlo con le parole e ancor più con i pennelli. Su tela o su cartone. Su vecchie tavole o scatole in disuso. L'importante è che cantino, a ritmo vario e colorato.                E Arcangelo Persano, a modo suo, fa cantare i galli  ogni giorno, da oltre 80 anni.
Tarantino e vicentino d'adozione, autodidatta poi divenuto allievo di Otello De Maria, è un artista nel dipingere e nel vivere. Disegna galli, nient'altro.
Scelta di marketing o inconscio che parla attraverso la pittura, i galli di Arci Persano nascono così, uno dopo l'altro, nelle vecchie scuderie di un palazzo in centro storico a Vicenza, in Contrà San Marco 41. Le porte dello studio sono decorate e dipinte da galli, mentre all'interno stazionano quadri, vecchie scatole, materiale d'ogni genere che non muore mai.
Riutilizzo, recupero, rinascita. Parole chiave nell'arte di Arcangelo Persano, che nasce dal disegno, e non dalla pittura, come ama sottolineare.
Arcangelo Arci Persano, nel suo studio
in Contrà san Marco 41, a Vicenza
 Una vita in cui arte e letteratura si incrociano e dialogano, come le sue due città, Taranto e Vicenza. Nella città degli ulivi prima che dell'Ilva vive fino a 27 anni, figlio di un ufficiale dei Carabinieri e abituato a disegnare per gli amici, che in cambio di un nudo gli pagavano una cena. Poi l'arrivo a Vicenza, nel 1962, che coincide con il lavoro alle Poste e l'inizio della frequentazione degli ambienti artistici Vicentini. Nascono in questi momenti i Fogli artistici, sorta di vedemecum dell'arte vicentina che ancora oggi pubblica e distribuisce a chi incontra. Una descrizione della propria produzione o la presentazione dei colleghi artisti, priva di punteggiatura e dalla grafica che ricorda l'esperienza dei Calligrammes di Apollinaire, sui quali si sofferma, sempre. Perchè Arci non è uno di quegli artisti schivi e autoisolati. Ama parlare e confrontarsi con chiunque sia curioso, della sua arte o della vita, che diventa spunto per racconti in cui emerge la sua natura creativa. Un esempio? Chiedetegli delle sue esposizioni in giro per l'Italia. Vi racconterà di roccamboleschi viaggi a Pantelleria, dove al mattino disegnava e la sera esponeva, o quello a Capri, dove ha inventato la formula alberghiera "programma artista". Cosa significa? Semplice, in cambio di ospitalità lui espone le sue opere, che diventano merce di scambio. Ma se siete curiosi sul perchè siano proprio i galli i suoi animali preferiti, la risposta non è un segreto.  Perchè non li faceva nessuno. E io, me li sono fatti miei! Mi conoscono per i galli, sono il pittore dei galli. E i miei galli li devo vendere, perchè si disegna anche per questo. 
Un artista con le idee ben chiare, un pittore che i galli li immagina e li porta su tela. Freud potrebbe scomodarsi, raccontandoci  molte cose di questa ossessione ricorrente per l'animale dalla cresta rossa, ma a noi non importa. E ci basta che Arci continui a disegnare i suoi galli. Ora siamo  a quota 5000, e non è certo finita qui. 

 Simone Ariot
   



giovedì 14 marzo 2013

La moda di non rispondere alle mail




C’è una nuova moda che sta dilagando, trovando sempre più terreno fertile in Italia.
Non parliamo di fashion e nemmeno di cucina, ma di comunicazione, una delle parole più usate e abusate degli ultimi anni. Tutti vogliono occuparsene, tutti sono comunicatori, tutti sono affiancati nella loro quotidianità da tecnologie e aggeggini che dovrebbero facilitarla. Per contrappasso a questo fermento, qualche inconsapevole pioniere ha aperto la via al nuovo, dilagante e chiccosissimo trendy:

NON RISPONDERE ALLE MAIL
Ogni giorno, nel Belpaese, vengono spedite più di 350 mln di mail. Un’infinità. E’ come se ognuno di noi , compreso chi la mail non la usa, i bambini e gli analfabeti digitali, ne spedisse  sei al giorno. Io ne spedisco almeno 30, forse tu che mi stai leggendo solo una, o forse cento. La mia vicina di casa sicuramente nessuna, e nemmeno sua figlia. Quindi, facendo la media, i conti tornano.
Vi sono però mail e mail. Quelle di lavoro, con importanti allegati, dati specifici, elementi spesso vitali per poter svolgere quotidianamente la propria professione. Poi ci sono quelle amicali, con inviti semiufficiali a feste o matrimoni, auguri di Natale e ricorrenze, lettere d’amore o dichiarazioni d’odio, resoconti sull’ultimo museo visto o la prossima vacanza progettata. Poi vi sono quelle pubblicitarie, spam a non finire, che alcuni riescono ad evitare ed altri, senza colpa, ne diventano vittime.
Tra queste 350 milioni di mail vi sono poi mail con richieste. Mail dalle quali ci si aspetta una risposta, spesso importante. Si tratta di  mail inviate molto spesso a persone che non si conoscono ma di cui si riesce, a volte nemmeno troppo facilmente, a procurarsi il contatto, quasi sempre istituzionale o aziendale.
Mail che arrivano, ma non sempre. Mail che vengono lette (e se arrivano vengono quasi sempre lette). Mail a cui non segue una risposta, anche quando la richiesta di rispondere è esplicita. (Vi prego di rispondermi, anche con un semplice NO, per consentirmi di procedere con qualche eventuale altro interlocutore)
Molti professionisti di vari settori, come il sottoscritto, si sono abituati a precedere il potenziale interlocutore. Ad arrivare da lui per proporsi prima di essere a sua volta cercati. Per presentare un progetto, per chiedere di essere ascoltati, anche solo per un paio di minuti. I contenuti di queste mail sono vari. Ci sono ipotetiche soluzioni a determinati problemi che il potenziale interlocutore ha ma che non riesce a risolvere, ci sono proposte per allargare il business, ci sono richieste di partnership e molto altro. Chi sta dall’altra parte, chi le riceve e poi non risponde, forse non si è mai trovato nei panni di chi propone, di chi cerca di accendere un motore sapendo bene dove sta la benzina, dove mettere la chiave, dove provare a sgasare per vedere se funziona. Ma si trova davanti a qualcuno che decide di tagliare i fili elettrici, di fermare la comunicazione appena prima che possa partire.
Nel frattempo si perde tempo e risorse. Si fermano progetti senza nemmeno averne discusso e confrontati, si assiste uno dopo l’altro al veder morire idee, aziende, progetti.
La soluzione a molti disastri, la penso così, potrebbe essere in una delle innumerevoli mail ferme da qualche parte, in un recipiente intasato o nella mancanza di curiosità da parte del ricevente. Allora mi chiedo a cosa serva la tecnologia, le mail e tutti gli strumenti che oggi abbiamo per poterle leggere in qualsiasi punto ci si trovi. Più si moltiplicano questi aggeggi, più riscontro una difficoltà a comunicare attraverso questo (ancora straordinario) strumento.
A me, personalmente, capita ogni giorno. Ho un’idea, la studio un po’, la butto giù sotto forma di progetto, trovo l’interlocutore giusto, mi procuro il contatto……e via. Spedita. E sempre personalizzata.
Poi la morte. Il nulla, la non risposta.
Nell’ultima settimana mi è capitato 6 volte. Una al giorno (domenica non ne ho mandate). Mail per proposte di nuovi progetti, mail per richieste di interviste ( qui parliamo di lavoro, non di idee o voli pindarici), per richieste specifiche a chi , di fatto, offriva il suo contatto per offrire informazioni. In ordine:
1.      Caporedattore di nota testata nazionale che mi aveva commissionato un articolo dopo una mia proposta, ma che al momento di rispondermi per la conferma o meno della pubblicazione ha smesso di rispondere. Però si è tenuto il file con l’idea, la descrizione del progetto e la bozza di articolo
2.     Mail all’ufficio stampa della ASI (agenzia spaziale italiana), quindi parliamo di un professionista della comunicazione. Nella mail chiedevo una semplice conferma di un dato. Bastavano due lettere. Si o no.
3.     Mail a un venditore su ebay. Qui siamo al colmo. Mette un annuncio, trova l’unico folle disposto a comprare la sua merce, e non risponde alla richiesta di un codice iban per fare il bonifico. Contento lui
4.     Mail a un dirigente statale per comunicargli una cosa che lo riguarda almeno indirettamente, e che riguarda ancora più me, per la quale bastava la risposta: “Ricevuto”. Oppure, “Non me ne frega un ficco secco”; Almeno me la mettevo via.
5.     Poi ce n’è un’altra. Non posso rivelarla. Il destinatario probabilmente mi sta leggendo.
6.     Poi ce n’è un’altra ancora. Anche questa non posso rivelarla. Perché il dramma è che poi, nonostante ci si senta nel giusto, si ha paura di una reazione negativa da parte dell’interlocutore. Potrebbe affossare il progetto o semplicemente sbarrare ulteriormente le porte. Tanto l’ha già fatto. Probabilmente.

Ora mi chiedo, anzi vi chiedo. Anche voi vi sentite vittime di questo buco nero? E se invece ne foste gli artefici, potreste spiegarmi perché lo fate, o meglio, potreste suggerirmi come procedere? Magari è solo una questione di forma.

Il massimo, comunque, è stato tre anni fa. Questa ve la racconto, e sarò breve.
Avevo sviluppato un progetto autonomo, stava andando molto bene, e i risultati di questo progetto potevano interessare la comunità scientifica di quell’ambito disciplinare (psicopedagogia e didattica).
Ho deciso quindi di raccogliere tutti i contatti degli specialisti la cui disciplina poteva essere interessata dai risultati di quel progetto. Due settimane ininterrotte di raccolta dati. Circa 1500 nomi, quindi 1500 contatti mail. Tutti, dal primo all’ultimo, collegati o dipendenti dell’Università italiana. I loro indirizzi erano pubblici e inseriti in Internet.
Avevo inserito la conferma di recapito, quindi sapevo benissimo chi avrebbe avuto modo di riceverla. Questi gli sconfortanti  risultati, se volete commentateli, io mi  astengo.
Mail inviate: 1500
Mail mai arrivate perché l’indirizzo reso pubblico era sbagliato o non esisteva: 400
Mail arrivate ma bloccate per recipiente intasato (quelli che non leggono le mail e non cancellano le mail vecchie): 400
Mail arrivate e non lette: 300
Mail lette a cui non si è risposto: 370
Mail con risposta di cortesia: 17 (“Grazie per l’informazione, bel progetto, valuterò)
Mail con  breve scambio di informazioni:  8 (interessati ma impossibilitati a seguire il progetto per scarsità di fondi)
Mail concretizzate in progetti realizzati: 4
Totale 1500
Di queste 4 mail, tre si sono rivelate fregature assolute per il sottoscritto. Una si è concretizzata, portando solo un po’ di gloria.
Ho fatto la stessa prova, mandando solo 10 mail a ricercatori negli Usa, perché ormai ero stanco, disilluso e incazzato.
10 mail mandate. 9 risposte
3 offerte di procedere con il progetto.
No comment
p.s: Non ho potuto procedere con il progetto. Ora che c’era l’interlocutore, a vietarmelo è stata la scuola in cui era inserito il progetto, quindi il ministero.
Bene.
Simone Ariot

lunedì 4 marzo 2013

Alla ricerca della bellezza

Raffaello. Tre Grazie

Oggi, a scuola, si parlava di bellezza, di arte, di storia. Dall’Atene classica al Rinascimento fiorentino, di esempi in cui la storia ha portato bellezza ce ne sono molti. E sempre, senza alcuna eccezione, al principio di tutto c’era un buongoverno, retto da individui illuminati. Pericle, Lorenzo de Medici, persone accomunate dal culto bel bello, dalla ricerca di un armonia che si esplicita in palazzi, poemi, note di un pentagramma e molto altro. Una bellezze che si vede ancora oggi, perché rimane immutata, resistendo ai tempi e alla storia. Quando c’è fatica e perseveranza, le cose vengono fatte meglio, recitava il libro di testo, e rimangono. Uno spunto per avviare una discussione con gli studenti, chiedendo loro di indicare la bellezza che vedono oggi, frutto del nostro tempo. E qui cominciavano i problemi.
“Difficile trovarla tra le cose nuove, non mi viene in mente niente”, racconta Laura. “Penso ai tramonti, alla natura. Ma in effetti non è opera dell’uomo…” gli fa eco Matteo seduto due banchi dietro. “La musica è una cosa bella, ma non so se sarà ricordata nel tempo. La musica che piace a me intendo” , prosegue Valentina. In pochi minuti si parla, la classe si anima, e si fa fatica a trovare una linea, un elemento che metta d’accordo tutti. “La bellezza è soggettiva”, sottolineano i ragazzi. Certo, ma alla richiesta di definirla, entrano in crisi, e non riescono ad andare oltre a “è bello ciò che piace”.
Viene fuori, un po’ alla volta, che la bellezza è sempre più assente nella loro vita, che ormai non si sa più cosa sia. Eppure, nell’Atene di Pericle e nel Rinascimento di Lorenzo, la bellezza era riconosciuta. Sarà forse perché i governanti erano i primi a volerla cercare? Forse si. Ma chi è adulto e ha voluto trovarla, la bellezza sa che c’è. A volte è nascosta, non ha visibilità, a volte viene confusa con altro, relegata ai margini, occultata. La scuola, la famiglia, le agenzie educative, potrebbero cercarla insieme a loro, insieme ai ragazzi. Una sorta di educazione alla bellezza. Sono sicuro che gli effetti si farebbero sentire. Anche senza Pericle o Lorenzo.

Simone Ariot
*questo testo è pubblicato anche su La Nuova Vicenza

mercoledì 20 febbraio 2013

Giannino e il narcisismo pericoloso. Ma possiamo anche bypassare




Scrive  Stefano Folli sul Sole 24di oggi, a proposito di Giannino e dello scandalo sul master inesistente: "Al di là dei passi falsi del personaggio, sulle cui ragioni potrà pronunciarsi uno psicologo, resta la necessità di non disperdere il patrimonio di idee che Giannino ha saputo immettere in una delle più brutte campagne elettorali degli ultimi anni.......".

Anch’io credo che uno psicologo, o meglio uno psicoanalista, potrebbe avere molto da dire su Giannino, anzi molto da ascoltare da Giannino. Così come da Berlusconi, Grillo e altri personaggi che, di fatto, sono evidentemente affetti da un narcisismo anche patologico con strascichi di sindrome da onnipotenza diffusa. Queste situazioni portano all'inconsapevolezza di sé, al non vedere in sé cose che si vedono negli altri, a sentirsi quasi in una bolla di immunità che libera da ogni rischio. Tutti i leader della storia lo sono stati. Anche Gandhi. Per esporsi mediaticamente come outsider, è necessario essere narcisisti. Senza, non ci si potrebbe nemmeno candidare come rappresentante d’istituto al liceo.
E’ un dato di fatto.
A Giannino ha fregato l’inesperienza da outsider politico. La novità. Non è inesperto di politica, sia chiaro. Ne sa più di tutti gli altri, questo è evidente anche a chi lo odia. Manca l’esperienza della politica dal basso, quella che si fa probabilmente in consiglio comunale, in provincia potremo dire. Perché se ci fosse stata, si sarebbe già creato un episodio simile nella sua vita, e avrebbe così imparato a frenare certi impulsi che invece, in una campagna elettorale nazionale, non si fanno perdonare.
Chissà cosa passava per la sua mente quando, in più occasioni, ha sentito il bisogno di mentire sui titoli. Forse la frustrazione di non essere titolato (laurea o master che sia) quando da un personaggio come lui ci si aspetterebbe che lo fosse? Forse. Oppure l’insicurezza, che sta spesso alla base dei narcisisti, l’essere tanto apparentemente sicuri quanto realisticamente insicuri? Forse.
Ma siccome non siamo al festival della psicoanalisi e nemmeno in un corso di storia contemporanea del 2025 in cui si raccontano i fattacci della campagna 2013, credo che questo fatto si possa anche superare. Onestamente, se ha mentito, la questione mi infastidisce. Perché è un errore che si farà pagare. Ma se mi soffermo sull’oggetto su cui si dibatte………ci passo sopra. L’elettore, oltre al personaggio, sarebbe il caso che guardasse anche al programma. Come d’altra parte fanno per gli altri politici. Nei confronti di un Grillo condannato all’omicidio, un Berlusconi indagato, un Bossi o altri  che nella storia hanno avuto comportamenti a sfondo razzista in numerosissime occasioni.
Onestamente, che abbia o meno un master e le due lauree, non mi interessa proprio. E la menzogna riguarda lui e la sua sfera personale e non l’aria nuova che ha portato alla politica italiana in cui, master o non master, ce n’era evidentemente bisogno. D’altra parte, se un politico dice alla moglie di amarla e poi la tradisce, non significa che non possa essere un buon amministratore della cosa pubblica. Da che mondo e mondo.
Simone Ariot 

giovedì 24 gennaio 2013

La scuola è il parco giochi dell'irrealtà


Evento inaugurale di Corriere innovazione

È difficile, dopo aver partecipato all’evento per la presentazione del Corriere Innovazione, nuovo format/magazin/sito/comunità  made in Corriere, essere propositivi rispetto la questione scuola/istruzione/. Soprattutto se, poche ore prima, il contenitore del mio tempo non era il Diesel Village di Breganze ma l’aula insegnanti del liceo dove insegno.
Due pesi due misure si dice.
E invece no. I due pesi dovrebbero avere le stesse misure. Gli stessi colori e lo stesso impatto. Solo il pubblico poteva cambiare.
Perché scuola e innovazione dovrebbero essere un tutt’uno. Una sorta di Giano bifronte iper connesso , ma  speculare. Un costrutto unico, che si fonde e diviene simbolo del divenire. Parole a vanvera diranno alcuni, e forse è vero. Ma intanto dentro di me immagino un nuovo reality show in cui l’obiettivo, per una persona normale, è resistere all’interno di una scuola. Magari all’interno di un collegio docenti, dove si può discutere per oltre un ora su quali possano essere i criteri da adottare nella selezione degli eventuali studenti  in esubero al momento dell’iscrizione.  Piccolo particolare, nella scuola in questione c’è il problema opposto. Di studenti negli ultimi anni ne stanno arrivando sempre di meno, mettendo a rischio alcuni posti di lavoro dimostrando che c’è qualcosa che non va. Resistere in un reality in cui in gioco si mette il non senso, lo spreco dei talenti, o la loro demolizione (una delle attività preferite della scuola)
Mi raccomando però, non diciamolo.
La scuola preferisce continuare a vivere un mondo in cui non esistono interlocutori se non sé stessa o il passato. Un mondo in cui non ospitare eventuali  confronti ed ascolti, ma dar spazio alla sola, unica e indissolubile via. Quella dell’autoreferenzialità, della chiusura. E guardare il resto come se fosse sempre un male.
La vedo proprio così la scuola. Come un parco giochi dell’irrealtà. In cui si gioca a un gioco senza senso, che insegna le regole di un mondo vecchio e superato, e allontana invece ciò che di reale c’è fuori dalle sue porte.
Aiuto

Simone Ariot

p.s: comunque, fuori dalla scuola le cose si muovono. O per lo meno desiderano muoversi. Almeno li' 

martedì 8 gennaio 2013

Una cena 2+2. Io, te e i nostri smartphone

Una coppia che non dialoga.....se non con il proprio smartphone...



Una pizza fra amici, quattro birre e molte cose da raccontarsi.
 Sembrano gli ingredienti perfetti per una serata libera da impegni e routine, ma da qualche tempo a questa parte è sempre presente l'intruso. O meglio, gli intrusi. Non si tratta delle fidanzate di turno o di sveglie che suonano per ricordare un impegno preso. Ma degli oramai insostituibili smartphone. 
Immagini come questa non sono rare e stanno diventando tristemente ricorrenti. Non passano cinque minuti da quando ci si siede che conquistano la ribalta, uno dopo l'altro, i più moderni e tecnologici gingilli. Non per essere mostrati, perchè questo lo si faceva qualche anno fa, quando si respirava ancora il profumo della novità. Ora a nessuno interessa osservare e valutare l'Iphone di Luca o il Samsung-Android di Marco. Queste cose le fanno coloro che ancora non li possiedono, immaginando possa trattarsi di oggetti semi divini. Ognuno si eclissa nel proprio mondo, connettendosi sui social network, geolocalizzandosi, riorganizzando o taggando foto scattate in ogni mentre e in ogni dove. I quattro amici diventano quattro estranei e il telefono non  vale più una sbirciatina tra una conversazione e l'altra, per controllare se la fidanzata ha chiamato. Succede il contrario, e tra un aggiornamento andato a buon fine e l'ultima applicazione scaricata può capitare che ci si sfiori con gli sguardi per un segno di approvazione. 
Ormai è la prassi, non c'è più nulla di cui stupirsi. L'uomo è diventato una sorta di estensione del proprio smartphone,  nemmeno il contrario, e da lui e su di lui dipende la propria vita.
Arriva una pizza dall'originalissimo abbinamento prosciutto e funghi? Fotografiamola, taggandoci sopra chi ci guarda su Facebook e commentandone il gusto.
Sentiamo dal tavolo vicino nominare un termine sconosciuto? Colleghiamoci a wikipedia e tutto è risolto. Non importa se abbiamo fatto il classico e potremo dedurne l’etimo.
Una musica in sottofondo che ti piace ma non conosci? C’è Shazam e in cinque secondi conosci titolo ed autore.
Per carità, grandi invenzioni, ma alla fine, da quella serata, non ci rimarrà un gran ché del nostro amico con cui abbiamo cenato, o della nostra compagna/o. Perché queste cose succedono sempre più anche alle coppie e i rapporti perdono di senso e spessore.
E allora non stupiamoci se un ristoratore di Los Angeles, Mark Gold , ha deciso di applicare uno sconto del 5% ai clienti che “riescono” a spegnere il telefono a pranzo o cena, per non disturbare ma soprattutto per non isolarsi, restituendo senso ad un momento, quello conviviale, che serve anche ad unire e creare socialità. Ma siamo sicuri che iniziative come queste riusciranno ad attecchire?    

Simone Ariot