C’è una
nuova moda che sta dilagando, trovando sempre più terreno fertile in Italia.
Non
parliamo di fashion e nemmeno di cucina, ma di comunicazione, una delle parole
più usate e abusate degli ultimi anni. Tutti vogliono occuparsene, tutti sono
comunicatori, tutti sono affiancati nella loro quotidianità da tecnologie e
aggeggini che dovrebbero facilitarla. Per contrappasso a questo fermento,
qualche inconsapevole pioniere ha aperto la via al nuovo, dilagante e
chiccosissimo trendy:
NON
RISPONDERE ALLE MAIL
Ogni
giorno, nel Belpaese, vengono spedite più di 350 mln di mail. Un’infinità. E’
come se ognuno di noi , compreso chi la mail non la usa, i bambini e gli
analfabeti digitali, ne spedisse sei al
giorno. Io ne spedisco almeno 30, forse tu che mi stai leggendo solo una, o
forse cento. La mia vicina di casa sicuramente nessuna, e nemmeno sua figlia.
Quindi, facendo la media, i conti tornano.
Vi sono
però mail e mail. Quelle di lavoro, con importanti allegati, dati specifici,
elementi spesso vitali per poter svolgere quotidianamente la propria
professione. Poi ci sono quelle amicali, con inviti semiufficiali a feste o
matrimoni, auguri di Natale e ricorrenze, lettere d’amore o dichiarazioni d’odio,
resoconti sull’ultimo museo visto o la prossima vacanza progettata. Poi vi sono
quelle pubblicitarie, spam a non finire, che alcuni riescono ad evitare ed
altri, senza colpa, ne diventano vittime.
Tra
queste 350 milioni di mail vi sono poi mail con richieste. Mail dalle quali ci
si aspetta una risposta, spesso importante. Si tratta di mail inviate molto spesso a persone che non
si conoscono ma di cui si riesce, a volte nemmeno troppo facilmente, a procurarsi
il contatto, quasi sempre istituzionale o aziendale.
Mail
che arrivano, ma non sempre. Mail che vengono lette (e se arrivano vengono quasi
sempre lette). Mail a cui non segue una risposta, anche quando la richiesta di rispondere
è esplicita. (Vi prego di rispondermi,
anche con un semplice NO, per consentirmi di procedere con qualche eventuale
altro interlocutore)
Molti
professionisti di vari settori, come il sottoscritto, si sono abituati a
precedere il potenziale interlocutore. Ad arrivare da lui per proporsi prima di
essere a sua volta cercati. Per presentare un progetto, per chiedere di essere
ascoltati, anche solo per un paio di minuti. I contenuti di queste mail sono
vari. Ci sono ipotetiche soluzioni a determinati problemi che il potenziale
interlocutore ha ma che non riesce a risolvere, ci sono proposte per allargare
il business, ci sono richieste di partnership e molto altro. Chi sta dall’altra
parte, chi le riceve e poi non risponde, forse non si è mai trovato nei panni
di chi propone, di chi cerca di accendere un motore sapendo bene dove sta la
benzina, dove mettere la chiave, dove provare a sgasare per vedere se funziona.
Ma si trova davanti a qualcuno che decide di tagliare i fili elettrici, di
fermare la comunicazione appena prima che possa partire.
Nel
frattempo si perde tempo e risorse. Si fermano progetti senza nemmeno averne
discusso e confrontati, si assiste uno dopo l’altro al veder morire idee,
aziende, progetti.
La
soluzione a molti disastri, la penso così, potrebbe essere in una delle
innumerevoli mail ferme da qualche parte, in un recipiente intasato o nella
mancanza di curiosità da parte del ricevente. Allora mi chiedo a cosa serva la
tecnologia, le mail e tutti gli strumenti che oggi abbiamo per poterle leggere
in qualsiasi punto ci si trovi. Più si moltiplicano questi aggeggi, più
riscontro una difficoltà a comunicare attraverso questo (ancora straordinario)
strumento.
A me,
personalmente, capita ogni giorno. Ho un’idea, la studio un po’, la butto giù
sotto forma di progetto, trovo l’interlocutore giusto, mi procuro il contatto……e
via. Spedita. E sempre personalizzata.
Poi la
morte. Il nulla, la non risposta.
Nell’ultima
settimana mi è capitato 6 volte. Una al giorno (domenica non ne ho mandate).
Mail per proposte di nuovi progetti, mail per richieste di interviste ( qui
parliamo di lavoro, non di idee o voli pindarici), per richieste specifiche a
chi , di fatto, offriva il suo contatto per offrire informazioni. In ordine:
1.
Caporedattore di nota testata nazionale che mi
aveva commissionato un articolo dopo una mia proposta, ma che al momento di
rispondermi per la conferma o meno della pubblicazione ha smesso di rispondere.
Però si è tenuto il file con l’idea, la descrizione del progetto e la bozza di
articolo
2.
Mail all’ufficio stampa della ASI (agenzia
spaziale italiana), quindi parliamo di un professionista della comunicazione.
Nella mail chiedevo una semplice conferma di un dato. Bastavano due lettere. Si
o no.
3.
Mail a un venditore su ebay. Qui siamo al colmo.
Mette un annuncio, trova l’unico folle disposto a comprare la sua merce, e non
risponde alla richiesta di un codice iban per fare il bonifico. Contento lui
4.
Mail a un dirigente statale per comunicargli una
cosa che lo riguarda almeno indirettamente, e che riguarda ancora più me, per
la quale bastava la risposta: “Ricevuto”. Oppure, “Non me ne frega un ficco
secco”; Almeno me la mettevo via.
5.
Poi ce n’è un’altra. Non posso rivelarla. Il
destinatario probabilmente mi sta leggendo.
6.
Poi ce n’è un’altra ancora. Anche questa non
posso rivelarla. Perché il dramma è che poi, nonostante ci si senta nel giusto,
si ha paura di una reazione negativa da parte dell’interlocutore. Potrebbe
affossare il progetto o semplicemente sbarrare ulteriormente le porte. Tanto l’ha
già fatto. Probabilmente.
Ora
mi chiedo, anzi vi chiedo. Anche voi vi sentite vittime di questo buco nero? E
se invece ne foste gli artefici, potreste spiegarmi perché lo fate, o meglio,
potreste suggerirmi come procedere? Magari è solo una questione di forma.
Il
massimo, comunque, è stato tre anni fa. Questa ve la racconto, e sarò breve.
Avevo
sviluppato un progetto autonomo, stava andando molto bene, e i risultati di
questo progetto potevano interessare la comunità scientifica di quell’ambito
disciplinare (psicopedagogia e didattica).
Ho
deciso quindi di raccogliere tutti i contatti degli specialisti la cui
disciplina poteva essere interessata dai risultati di quel progetto. Due
settimane ininterrotte di raccolta dati. Circa 1500 nomi, quindi 1500 contatti
mail. Tutti, dal primo all’ultimo, collegati o dipendenti dell’Università
italiana. I loro indirizzi erano pubblici e inseriti in Internet.
Avevo
inserito la conferma di recapito, quindi sapevo benissimo chi avrebbe avuto
modo di riceverla. Questi gli sconfortanti
risultati, se volete commentateli, io mi
astengo.
Mail
inviate: 1500
Mail
mai arrivate perché l’indirizzo reso pubblico era sbagliato o non esisteva: 400
Mail
arrivate ma bloccate per recipiente intasato (quelli che non leggono le mail e
non cancellano le mail vecchie): 400
Mail
arrivate e non lette: 300
Mail
lette a cui non si è risposto: 370
Mail
con risposta di cortesia: 17 (“Grazie per l’informazione, bel progetto,
valuterò)
Mail
con breve scambio di informazioni: 8 (interessati ma impossibilitati a seguire il
progetto per scarsità di fondi)
Mail
concretizzate in progetti realizzati: 4
Totale
1500
Di
queste 4 mail, tre si sono rivelate fregature assolute per il sottoscritto. Una
si è concretizzata, portando solo un po’ di gloria.
Ho
fatto la stessa prova, mandando solo 10 mail a ricercatori negli Usa, perché ormai
ero stanco, disilluso e incazzato.
10
mail mandate. 9 risposte
3
offerte di procedere con il progetto.
No
comment
p.s:
Non ho potuto procedere con il progetto. Ora che c’era l’interlocutore, a
vietarmelo è stata la scuola in cui era inserito il progetto, quindi il
ministero.
Bene.
Simone Ariot